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Il Sindaco di Oristano Guido tendas sotto accusa.

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ZONA FRANCA E FALSE CARTE D’ARBOREA

        di Francesco Casula                  

E’ polemica durissima fra il sindaco di Oristano Guido Tendas e un gruppo di sostenitori della Zona franca che hanno chiesto le sue dimissioni. All’origine  della contestazione un intervento di Tendas a Bruxelles in cui – oltre che a prendere le distanze dalla mozione approvata dal Consiglio comunale oristanese – avrebbe “offeso la storia e la città di Eleonora”, rispolverando artatamente le “false Carte di Arborea”. Su questa questione vorrei soffermarmi mentre consegno la narrazione sulla Zona Franca agli esperti. Sotto la denominazione impropria di “Carte d’Arborea” si raccoglie un insieme di pergamene, di codici cartacei e di documenti (una quarantina di testi di varie dimensioni, attualmente custoditi quasi tutti nella Biblioteca universitaria di Cagliari, riguardanti il periodo  dal VI al XV secolo, ovvero dalla dominazione romana al Medioevo) che, a partire dal 1845 vennero offerti in vendita dal frate  Cosimo Manca del Convento di santa Rosalia in Cagliari. Il frate ne asseriva la provenienza dagli Archivi dei re-Giudici d’Arborea di Oristano, da qui il nome di Carte di Arborea. Che comunque – è bene sottolinearlo – niente a che fare hanno con la Carta de Logu della regina-giudicessa Eleonora d’Arborea. La prima pergamena (conosciuta come Pergamena di Arborea) fu offerta allo storico sardo Pietro Martini proprio nel 1845 che la pubblicherà un anno dopo, nel 1846. La raccolta definitiva delle Carte fu pubblicata nel 1863. Sottoposte a unaéquipe di esperti costituita da accademici dell’Università di Berlino – fra cui il grande storico ed epigrafista Theodor Mommsen – sulla base di una rigorosa analisi intrinseche (scrittura, inchiostri e materiali scrittori) e di ragioni estrinseche (caratteri filologici e storici) ne fu decretata la falsità. Tutto a posto, allora? No, per niente. Quei falsi – ha sostenuto lo scrittore Natalino Piras – interpretano lo spirito dei Sardi più di qualsiasi «tradizione storiografica europea». Ne costituiscono il romanzo storico, come giustamente dice lo storico Manlio Brigaglia, ma allo stesso tempo svelano quanto di falso, compresso, abraso, cancellato, manipolato, imposto con forza ci sia nella tradizione storiografica che si occupa di Sardegna. In altre parole sono certo dei “Falsi” che però raccontano dell’Isola e della sua civiltà politica e letteraria, più verità di quanto non ne racconti la storia ufficiale narrata dai “vincitori”.

Pubblicato su SARDEGNA Quotidiano del 8-7-2013


Itamicontas

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Itamicontas

 

Biblioteca di Flumini, 11 giugno 2013 ore 17.00

 

FRANCESCO CASULA RICORDA IL COMPAESANO MICHELE COLUMBU

 

L’Associazione culturale Ita mi contas per l’11 luglio prossimo (ore 17, Biblioteca di Flumini, Via Mar Ligure, 3)  organizza un Incontro per ricordare l’ollolaese Michele Columbu, a un anno esatto dalla sua scomparsa a Capitana, dove risiedeva da decenni.

 

Dopo l’introduzione del Dott. Paolo Maccioni – vice presidente di Ita mi contas – terrà la relazione il professor Francesco Casula che rievocherà la figura del leader sardista, (è stato Segretario nazionale e Presidente del PSD’Az) del parlamentare sia italiano che europeo, ma soprattutto dell’intellettuale e dello  scrittore e affabulatore ironico, raffinato e colto.

 

 

 

MICHELE COLUMBU

 

Il leader sardista, il parlamentare, l’intellettuale, lo scrittore e l’affabulatore ironico (1914-2012)

 

Michele Columbu nasce a Ollolai l’8 febbraio 1914. Dopo gli studi medi e superiori a Nuoro, frequenta l’Università di Cagliari dove si laurea in Lettere classiche. Insegna nelle scuole medie, sempre a Nuoro. Partecipa alla seconda guerra mondiale come ufficiale di cavalleria sul fronte russo.

 

Nel 1948, Emilio Lussu opera una scissione all’interno del Partito sardo d’azione, dando vita al Partito socialista sardo. Michele Columbu, sardista e “lussiano” –è  lui stesso a scriverlo – dal punto di vista della politica sociale e anche per la simpatia, l’onestà che sentivo dell’uomo, la totale partecipazione alle proprie idee, l’estrema sincerità, ma in disaccordo per quanto atteneva alla politica delle alleanze e di collaborazione con i partiti esterni, non segue Lussu nella scissione, ma amareggiato e a disagio perciò che era successo, abbandona la Sardegna e si reca a Milano dove insegnerà nelle scuole medie,– con una breve parentesi a Monza – fino al 1964.

 

Rientrato in Sardegna – è ancora lui a ricordarlo –- nel 1964-65 fa il professore a Cagliari e il Sindaco di Ollolai. Nel 1964 infatti presenta nel suo paese una lista civica sconfiggendo i democristiani. Ecco come racconta la sua doppia “professione”: Insegnando a Cagliari andavo a Ollolai alla fine della settimana…domenica facevo Consiglio…non c’erano assegni né gettone di presenza…io mi sentivo chiamare da tutte le parti «amministratore». Non potevo riparare un selciato, in dissesto e pericoloso, perché non c’era un centesimo nel comune…. E poi ci sono i disoccupati cinquanta capifamiglia e i pastori colpiti da una grande nevicata. Manda Espressi e Telegrammi agli Assessori regionali. Neppure gli rispondono. Così concepisce e attua la marcia che passerà alla storia: da Cagliari a Ollolai, a Sassari, percorrendo a piedi 500 km lungo tutta la Sardegna per chiedere lavoro e sviluppo delle zone interne e montane e per esprimere la protesta della Sardegna interna contro le condizioni di arretratezza in cui era lasciata non solo dal Governo centrale ma anche da quello regionale

 

L’iniziativa travalicherà il Tirreno: il 13 Aprile ne darà notizia il telegiornale delle Venti. Arriveranno attestati di solidarietà da tutta l’Isola, specie dal mondo agropastorale. Si svilupperà una vera e propria protesta di massa contro il fallimento dell’Autonomia. A Columbu il PCI proporrà la candidatura ma rifiuterà per dedicarsi all’organizzazione dei pastori e alla crescita del suo Partito.

 

Chiamato qualche tempo dopo al Centro regionale della programmazione come esperto dei problemi del mondo agropastorale, lascia quando nel 1972 fu eletto deputato come indipendente  nelle liste del PCI, in rappresentanza del Partito sardo d’azione, di cui diventerà segretario prima e presidente poi. Nel 1984 venne eletto parlamentare europeo nella lista Federalismo Europa dei Popoli, formata da un accordo tra il Psd'az e l'Union Valdôtaine.

 

 Ha scritto numerosi racconti (Guri e Nurilò: paesi di montagna, La strega di GurìLa via della tanca); saggi di carattere politico (Il fischio del pastore; Lettera su Orgosolo; Contro i petrolieri; Sardità e milizia politica di Emilio Lussu; Lotte sociali, Antifascismo e autonomia in Sardegna; I veri sardi; L'autonomia vista da Milano; I veri sardisti); la raccolta di racconti L'aurora è lontana (1968) e il romanzo Senza un perché (1992), che entrerà fra i finalisti del Premio nazionale letterario Giuseppe Dessì.

 

Columbu scrive prevalentemente in italiano ma anche in lingua sarda, che padroneggia magistralmente e di cui conosce perfettamente le varianti fondamentali e persino molte varietà locali di singoli paesi. In lingua sarda ha scritto –fra gli altri- due piccoli saggi (Istados e nassiones e In chirca de una limba) e  Sardos malos a creschere, un Omaggio a Michelangelo Pira.

 

Al di là dei contenuti e della lingua utilizzata, quello che emerge dalle opere di Columbu, che amava ironicamente definirsi un pastore per pura combinazione laureato, è uno scrittore raffinato e colto, con un linguaggio carico di deflagrazioni umoristiche e dalle grandi capacità allusive, impregnato di immagini ardite, di metafore, di parabole, di simboli e di proverbi.

Muore a Cagliari il 10 luglio 2012. 

 

Presentazione del testo [tratto da Senza un perché, di Michele Columbu, AM&D Edizioni, Cagliari 1992, pagine 13-16].

Il romanzo consta di trentatre capitoli con il primo che funge da prologo. Narra la vicenda di tre personaggi, il pastore Zigàr, il terribile Zigàr, il suo giovane aiutante Miél e il vagabondo Marco, figlio dell’arcobaleno, l’intellettuale. Insieme a loro Zio Ame, un vecchio che racconta storie incredibili e che indicherà la strada del tesoro; Braus un porcaro che ha paura del bosco; Chirielle di Orthule, un avaro, che sfrutta i poveri e non li paga; Rosa l’indovina, che vede e predice a Zigar una montagna d’oro – che appare nel capitolo che si riporta – e tanti altri minori.

 

I tre protagonisti, Zigàr, Miél e Marco, in un singolare viaggio, caricati sull’asino Nuovoloso  coperte, prosciutti, formaggi, galletta in abbondanza, una grossa zucca di acquavite, due lampade a carburo, gli attrezzi da lavoro, muovono alla ricerca di improbabili tesori perduti, negli spazi infiniti di un immaginario e mitico continente, indefinito ma comunque mediterraneo. Fanno da sfondo alla favolosa caccia al tesoro – de un’aschisorju, in lingua sarda – anfratti e cavernette naturali, crepacci e dirupi, cespugli inaccessibili, rocce e sorgenti, aspri sentieri, costoni e burroni, fitti boschi, con i suoi odori e con i suoi colori, ammantati di incantesimi maligni, animali fantastici dal soffio mortale (come il cortone), montagne di aspra e selvaggia bellezza, altopiani sconfinati e valli di bianco e quasi etereo calcare, con nomi inusuali e fantastici: Garuele, Moscamakè, Moscamè, Marolanche, Tralignos, Mirisones, Checotha Gatharin, Buscabusa, Tragatraga. Che danno vita a descrizioni incantate, con veri e propri lacerti lirici: Cento usignoli invisibili si erano dati convegno in quel luogo fresco e invitante. E si scambiavano proposte di veri solfeggi. Rigogliosi ciuffi di giunchi e di menta ospitavano sciami di farfalline azzurre; sugli alti cardi fioriti brillavano cantaridi verdi e giallo oro.

 

“La caccia – scrive Giuseppe Corongiu in una bella recensione – si trasforma ben presto in una inchiesta shakespeariana che rivela gli eterni dubbi sull’esistenza umana. Il tesoro è custodito da mostri che possono arrecare all’umanità il Sommo Bene o il Sommo Male. Ma qual’é il vero bene per l’uomo? Un miracolo che smetta di farlo soffrire ma allo stesso tempo intorpidisca la sua coscienza? Che gli tolga ogni desiderio? Columbu come Sartre spiega che l’uomo ha dentro di sé il bene e il male in un abbraccio inestricabile. La panacea che potrà sbrogliare questa matassa forse non è una ricetta consigliabile”. 

 

Giudizio critico

Secondo Natalino Piras “Senza un perché è romanzo di viaggio e appartiene per questo a uno dei più classici filoni della narrativa: Gulliver, Robinson Crusoe, Tristram Shandy ma anche Ulysses, La Commedia, Il Morgante ma anche e soprattutto Don Chisciotte […].

E così, come per i classici romanzi di viaggio (pensate a un classico dei classici: l’Odissea) è importante l’epilogo. Ma più importanti per il lettore, sono le avventure e le traversie, il sole e il buio, la notte e il giorno, lungo l’arco che collega l’inizio a quello che in gergo si chiama l’agnizione, lo svelamento, la fine totale (prima di riprendere) o provvisoria.

 

Tutto questo per dire quanto sia abile narratore Michele Columbu, della sua capacità riconosciuta, acquisita a uno specifico della letteratura, di trasporre in scrittura la fabula, la trama favolistica de sos contos”.

 

[Natalino Piras, Michele affabulator maximus, Ichnusa, rivista della Sardegna, anno 11, n.23, Nuova serie, Marzo 1992-Febbraio 1993].

 

Mentre sulla “scrittura” di Columbu, Antonangelo Liori osserva “Lo stile si colloca a metà strada tra il comte philosofique tanto caro a Italo Calvino e il Don Chisciotte di Miguel Cervantes.La scrittura è semplice, essenziale, senza fronzoli, priva di neologismi e termini stranieri. Si procede avanti spediti nella narrazione mitica, interrotta ogni tanto da un sussulto di ironia. Ogni incanto viene scosso da un’immagine grottesca che fa ridere, sorridere e al tempo stesso sussultare”.

 

[Antonangelo Liori, “Senza un perché”, una fiaba surreale di Michele Columbu, L’Unione Sarda, 27-8-1992].

ANALIZZARE

Qualche critico – penso ad Antonangelo Liori e a Giuseppe Corongiu – ha avanzato l’ipotesi che i tre personaggi principali al centro del’universo narrativo di Senza un perché :Zigàr, mandriano esistenzialista metà cow boy e metà filosofo; Miel l’eterno adolescente, compagno di Zigàr, curioso di ciò che accade, avido di conoscenza e pronto a seguire il suo amico in capo al mondo; Marco, personaggio complesso e composito, spuntato dall’arcobaleno e depositario della sapienza millenaria dell’umanità, siano tre uomini distinti ma nel contempo rappresentino le tre facce dell’Autore, ovvero la manifestazione, l’epifania trivalente della sua ricca, poliedrica e multiforme personalità. Così Zigàr sarebbe Michele Columbu uomo politico, incarnante i sudati territori contadini; Marco, Columbu intellettuale, espressione delle cittadelle culturali e Miél, Columbu eterno adolescente, sempre disincantato e curioso, anzi, caratterizzato da un’insaziabile curiosità.

 

Il romanzo, in un intreccio prima cadenzato poi rapido e avvincente, è scritto in una lingua italiana nitida e rarefatta ma con forti cadenze sarde quando viene utilizzata da qualche personaggio (come per esempio Zigàr), che Columbu sa mutuare  – sia pure con grande originalità – dalla cultura tradizionale sarda e dalla oralità.

 

Da esso – come del resto anche dagli altri scritti di Columbu – emerge soprattutto il suo distacco e la sua saggezza, il suo moderato ottimismo, mai vacuo però e anzi temperato da un alone di scetticismo e di dubbio; l’occhio sorridente e arguto, mai cattivo né arcigno, che spesso si fa ustorio ma che preferisce sempre l’ironia all’indignazione e all’invettiva; lo sberleffo satirico all’aggressione verbale; la canzonatura e il motteggio – quasi sottovoce – allo sbraitare e alzare la voce con berci e urla. Egli è evidentemente convinto che la messa in ridicolo frusti e tagli più netto e con più energia del “serioso”o dello sparare a mitraglia. In una favola impastata di inganni e sortilegi, misteri e sogni. In cui si alternano, di volta in volta, la malinconia, l’amarezza e la nostalgia, la speranza e la dolcezza. Ma in cui a prevalere è la saggezza e un altissimo senso della moralità, ben riassunti ed esemplificati da questi due aforismi:Tristi e senza speranza  vivono gli oppressi che hanno dimenticato persino la leggenda della propria libertà e Un uomo, in qualunque luogo passi, ha il dovere di lasciare un segno di solidarietà e di amicizia.

 

 

 

Veltroni contro l'indipendentismo

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Veltroni scrittore si legga i maestri della vera sinistra

 

di Francesco Casula

 

Walter Veltroni nei giorni scorsi è stato in Sardegna a presentare il suo ultimo libro. E ha ripetuto una serie di luoghi comuni. Ma soprattutto ha confermato la sua visione centralista dello Stato. Si attarda infatti – fuori tempo massimo  – sull’Autonomia (“le ragioni dell'autonomia vanno sostenute”) ; mentre ribadisce la sua ostilità all’Indipendenza (“Altra cosa sono le illusioni indipendentiste”). Eppure se dedicasse meno tempo a scrivere libri infarciti di banalità – sia pure “riformiste” –  e andasse a studiare la storia della “Sinistra” scoprirebbe che essa “non nasce statalista e burocratica ma sfortunatamente lo è diventata”. Ad affermarlo è stato Aldo Tortorella, una delle teste pensanti del vecchio PCI. Ma molto prima di lui lo stesso Marx, quello più autentico e rivoluzionario, secondo cui “Un popolo che opprime un altro popolo non può mai essere libero”. E che a proposito della Questione Irlandese scriveva: “La vittoria della classe operaia inglese non può risolvere la questione irlandese, sarà invece la soluzione della questione irlandese a favorire, o, meglio, rendere possibile la vittoria della classe operaia inglese”. A parte queste posizioni teoriche occorre però con altrettanta nettezza affermare che la Sinistra nella sua storia  –segnatamente quella italiana – abbandonerà del tutto il federalismo, anzi lo combatterà ferocemente. Ricordo che il leader maximus del PCI, Togliatti, condannò senza appello il federalismo: sulla scia di Engels, secondo cui  “Il proletariato può utilizzare soltanto la forma della repubblica una e indivisibile…e non solo ha bisogno dell’accentramento com’è avviato dalla borghesia, ma dovrà addirittura portarlo più avanti”.

 

“Siamo contro il federalismo – scriverà Togliatti – e riteniamo che l’Italia debba essere politicamente organizzata come stato unitario, con il necessario grado di centralizzazione…un’Italia federalistica sarebbe un paese nel quale risorgerebbero e finirebbero per trionfare tutti gli egoismi e i particolarismi locali e sarebbe ostacolata la soluzione dei problemi nazionali nell’interesse di tutta la collettività. Un’Italia federalistica sarebbe un’Italia nella quale in ogni regione finirebbero per trionfare forme di vita economica e politica arretrate, vecchi gruppi reazionari, vecchie cricche egoistiche, le stesse che hanno fatto sempre la rovina d’Italia”. Insomma tutto il vecchio ciarpame dei sostenitori della forma napoleonica dello stato unitario e centralista. Che oggi Veltroni ripropone. Eppure avrebbe buoni motivi per rivedere tale posizione. E maestri anche all’interno della sua area politica. Come Sabino Cassese,  già ministro della Funzione Pubblica, secondo cui “Sono le stesse condizioni della Pubblica amministrazione a imporre un radicale cambiamento. Al centro non deve restare quasi nulla, solo alcune funzioni importanti come l’ordine pubblico, la politica estera, la difesa. Al centro ci saranno funzioni di supporto, tutto il resto deve essere decentrato”. Non è un caso che 18 dei 37 stati nazionali europei abbiano una struttura federale e altri paesi unitari discutano se imboccare quella strada. C’è chi paventa che il federalismo potrebbe prosciugare i flussi finanziari verso il sud, dando vita a due Italie: una sviluppata, quella del Nord, con servizi efficienti e con opportunità di lavoro e di benessere e l’altra, quella del Sud, più povera e penalizzata. Ma di grazia,tale divisione non è in atto e non è frutto proprio dello Stato centralista?

 

Pubblicato su SARDEGNA Quotidiano del 10-7-2013

Paolo Maccioni, imprenditore di Quartu, che scrive romanzi

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UN INTRECCIO

FRA COMPLOTTI

E SEPARATISTI

di Francesco Casula

Paolo Maccioni, laurea in giurisprudenza, è nato e vive a Quartu. E’ stato dirigente di un ente previdenziale, ha collaborato con vari istituti di ricerche di mercato e marketing, ha fatto l’ imprenditore, (fra l’altro in Sardegna ha realizzato una fabbrica di materie plastiche per l'edilizia). Negli ultimi due decenni si è completamente dedicato a ordinare scritti, appunti, annotazioni e  pensieri che aveva maturati nel corso delle varie esperienze lavorative. Ha così pubblicato tre romanzi: “La guerra del pellicano” (2003); la guerra del pellicano.jpgI segreti del Presidente” (2005)I segreti del prsidente - Abel Book.PNG e “Incendio nella cattedrale” (2008),2620185.jpg ottenendo numerosi riconoscimenti in svariati concorsi letterari. Figlio d’arte –  il padre Attilio è stato eccellente autore di poesie raccolte e pubblicate in ben dieci volumi –  Paolo Maccioni l’anno scorso ha fondato a Flumini di Quartu, insieme ad alcuni amici l’Associazione culturale Ita mi contas che settimanalmente organizza nella frazione Quartese la presentazione di libri, conferenze sulla cultura, la storia e la lingua sarda, brevi corsi introduttivi alla musica e alla pittura, serate musicali. Nei suoi romanzi  Maccioni denota una naturale propensione alla scrittura e personale valentia narrativa. Mi riferisco in modo particolare a “I segreti del Presidente”, in cui conduce e tesse il racconto  politico-poliziesco abilmente, con un lessico spesso affilato, con grande tensione narrativa, incalzante e palpitante, con infiniti colpi di scena, alla ricerca dei responsabili di intrighi, misteri e sotterfugi di cui è tramato il romanzo. Che vede protagonisti di un complotto separatista sardo per l’indipendenza dell’Isola, da parte dell’organizzazione “Corsa del moro”, improbabili guerriglieri, procuratori della repubblica, generali dell’esercito,  medici. Quando il mistero sembra disvelato, quando “l’assassino” pare individuato, si susseguono ulteriori deragliamenti e colpi di scena. E solo alla fine il “complotto” viene chiarito e compreso in tutti i suoi contorni e nelle sue scomode verità. Un romanzo da leggere: non da chiosare. Per poterlo gustare e assaporare. Specie nelle magistrali descrizioni dell’ambiente e del paesaggio sardo. Ma anche nei dialoghi e ancor più nei soliloqui dei protagonisti. Che si muovono, alcuni fra grandi passioni e alti (ingenui) ideali; altri fra mediocri calcoli, bassi interessi e smisurate aspirazioni. A uscirne peggio sono gli uomini di potere e delle Istituzioni: piegate queste esclusivamente alle proprie carriere e ambizioni.

Pubblicato su SARDEGNA Quotidiano del 12-7-2013

CORSO DI LINGUA SARDA IN GUSPINI (16-7-2013)

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CURSU DE LIMBA SARDA IN GUSPINI

Il corso rivolto ai dipendenti della pubblica amministrazione, (dipendenti comunali e provinciali) è però aperto alla partecipazione di tutta la popolazione.  

 

 

Martis, su seighi de triulas in Gùspini (oras 16-19, in sa sala de su Consigiu comunale, Via Don Minzoni, 10)
ap’a faeddare – in Sardu – de “Istoria, Limba e Literadura sarda” ma mescamente de sa poesia satirica, befiana e bagliugula: 
de Efisio Pintor Sirigu (Sa canzoni de su caboniscu e Unu zertu amigu)

e de Benvenuto Lobina (Cuadeddu Cuadeddu)

 

 

1. Efisio Pintor Sirigu: Il più grande poeta satirico di fine Settecento in lingua sardo-campidanese (1765-1814).

 

 

SA CANZONI DE SU CABONISCU

Tengu unu caboni de sa vera casta:

Bista sa puddasta – sindi fai’ meri;

Mi fai prexeri su dd’essi acchistau.

2.

Mi fai’ prexeri su ddu tenni in manu;

Gei est unu caboniscu

Chi si piga su friscu – dognia dì a mengianu

Cantendi baggianu,

Gosai de s’oghianu – pinnas doradas bogat;

Gei est unu caboniscu

Chi si piga su friscu – sartat, currit e giogat:

In sa terra forrogat,

Cant’agattat ndi’ogat – e non di lassat nudda.

Gei est unu caboniscu

Chi si piga’ su friscu – zerriendis is puddas,

Aspettendiri cuddas,

Derettu sazzuzuddat – bellu inchighiristau.

3.

Aspettendiri cuddas

Derettu s’azzuzuddat, e non circat cuerru

Allirgu che una pasca,

Issu no timit basca – nè frius in s’oerru,

Forti che unu ferru

Ndi bessit de s’inserru – non timid’ acciottu,

Allirgu che una pasca

Issu no timit basca – sempiri postu in motu;

Inc’ ‘essit trotu, trotu;

Su bixinau tottu – circat po tenni sfogu;

Allirgu che una pasca

Issu non timit basca – balla ndi dd’ ‘oghit s’ogu!

Abbruxendi che fogu

Bandat de logu in logu – cantend’ in bixinau.

4.

Abbruxendi che fogu,

Andat de logu in iogu – nè timit po nudda;

E cant’es curiosu,

Fendi su graziosu – zerriendi sa pudda.

Comenti s’azzuzuddat,

E cun cust’e cun cudda – cumenzad’ a giogai.

E cant’es curiosu,

Fendi su graziosu – circhend’ ‘e ddas burlai!

Si ponit a sartai

Po ddas ispassiai – cun giogus e burlitas;

Fendi su graziosu – ddi faidi sciampitas,

Ddis faidi is alitas,

Furriadas i anchitas – cum su ciuff’arziau.

5.

Ddis faid’ is alitas,

Furriadas i anchitas – ‘i arziat sa crista;

Bellu, cantu sci’ s’arti!

Girat de part’ in parti – no ddas perdit de vista:

Arziat sa chighirista,

Caminat pista pista – accuzzend’is ispronis,

Bellu, canto sci’ s’arti!

Girat de parti in parti – chi non c’intrit cabonis;

Ddis contat chistionis,

Istorias e canzonis – in sa lingua sua;

Bellu, cantu sci s’arti!

Girat de parti in parti – fendi su mamm’a cua;

Ddas sighid’ a sa fua

Ddas sezzid’a sa nua – cun su ciuff’afferrau.

6.

Ddas sighid’a sa fua

Ddas sezzid’a sa nua! – lestru che unu guettu;

Ita razza de giogu!

Mi ddis ponit forrogu – istrintu a su ciuffettu:

Mancai senza ‘e staffettu,

E senza de fuettu – es bonu sezzidori:

Ita razza de giogu!

Mi ddis ponit forrogu – non castiat colori:

Po dimostrai s’amori

Si bolit fai onori – sezziu a pal’ ‘e porceddu…

Ita razza de giogu!

Mi ddis ponit forrogu – ddas sezzit prexadeddu.

Ponit su spronixeddu,

Fait su cuccurumbeddu – si nd’arzat prexau.

7.

Ponit su spronixeddu,

Fait cuccurumbeddu – si ‘nd’arzat gioghendi.

O puddas isfacias

Chi andais pe’ is bias – su caboni xirchendi,

Prestu si biu frucendi,

Cun bregungia portendi – pilloneddus avatu…

O puddas isfacias

Chi curreis i’ bias – no penzendi a su fattu,

Deu gei mind’ accattu,

Ca po su disbarattu – si portantat a ogu;

O puddas isfacias

Chi andais pei bias – fend’arriri su logu,

Lassaiddu su giogu,

Ca su caboni, fogu! – menescit crastau.

 

UNU ZERTU AMIGU.

1.Unu zertu amigu un'egua teniada

Chi no dda sezziada solus che issu e deu;

Ma imoi giai creu, e isciu de siguru,

Chi a un'aturu puru dd'hat boffia imprestai.

2.Dd' hat offia imprestai, ei dd' hat fatta sa cua;

Imoi sa ddu sciu segu su cuntrattu,

Ca po prus chi segua fessit cosa sua,

Non depiat disponni foras de su pattu,

Chi si fiat fattu cun cundizioni,

Chi atara persona mancu dda tocchessit ;

E chi dda sezzessit, non serbid 'a nai...

3. Non serbid 'a nai, chi giai s'intendiada;

Fueddai prus claru zertu no podemu,

Chi finzas su meri e tottu no sezziada,

A bortas chi deu no ddu permittemu.

Mirai, si bolemu chi issu dda imprestessit!

Comenti chi fessi issu solu meri:

E chi deu podèri non tenghessi mai!

4.E chi deu mai no tenghessi poderi!

Segua ès sa mia, faulargiu non seu;

Chi, mancai crepis, femu e seu meri

Sa primu sedda dd'appu fattu deu;

E anzis mi creu, e forzis è claru,

Chi mi costat caru su mantenimentu;

Senza de su tentu, chi no bollu nai.

5.Su sientu ddu lasso a su discurzu allenu;
Pagu tempus esti, dd'appu comporau
Po gualdrappa noa paris con fu frenu;
I a unu meri allenu s'egua m'has lassau!?
Dd'emu comporau finza su pitrali,
Ch'in tali signali, gei dd'had'a portai.
6.Finzas su pitrali con sa scingra ona;
Arretranga nò, ca gei ndi tenemu;
E paris chi s’egua arziàt sa coa
Dei dda inseddamu, e deo dda sezzemu,
Mirai, si femu meri appoterau!
Ma gei m'è costau si mindi spassiamu,
Poita chi pagamu. finz'e a dda ferrai.
7.Finz'e a dda ferrai, po dda tenni amiga,
E po chi cun megus no fessit ingrata,
Ita olia de prus? finz'e una pariga
Dd'appu comporau de ferrus de prata,
Ma gei mi dd'ha fatta bella sa bointadi!
Prestada midd'hadi a un amigu miu,
Chi sind' es serbiu senz'arrespettai!
8.Senz'arrespettai già midd'hat serbia!
Sa curpa dda tenit chini dd'hat prestada;
Giai t'hant, arrangiau pobar'egua mia!
De tali manera mi dd’hat maltrattada,
Chi tott’est umfràda e no podit prus curri!
Chini had 'a discurri su chi m'e coscau...
Però m’hanti nau chi nd’hat a curai.
9.Però m'hanti nau, ch'had'essi sanada:
Ch'in ott' o noi mesis had'essi sanada:
Istettad' allirgu, no tengat paura,
Ca custa mixina sempir'è giuàda;
Ma mancai sanàda no dda sezzu prus;
Dd'hanti sezia dus... Buffa! no è cosa;
Chi had'essi viziosa si podit dudai.
10.Ch'ad'essi viziosa ddu tengu siguru,
S'egua guvernada de diversas manus,
E si mindi ghettat, comenti m'aturu?
Mi segad is ossus, si ddus portu sanus;
E cun soligianus non bollu cuntrattu,
E segu su pattu con meda plexeri,
Giaighi su meri, sciu de siguru,
Chi a un aturu puru s'egua m'hat lassau,
No seu obbligau mantenni su pattu,
E in custu cuntrattu non boll'abarrai.

 

 

BEBENVENUTO LOBINA.

Il poeta e il romanziere  bilingue che ha nobilitato la lingua sarda.(1914-1993)

 

CUADDEDDU, CUADDEDDU

Nebodeddu cantatori,

nebodeddu meda abbistu,

ti ddu paghit Gesu Cristu,

in salludi e in liori

 

po mi dd’ai spiegau,

nebodeddu car’’nonnu,

poita, apust’ ’e custu sonnu

chi xent’annus è durau,

 

iscidau mindad custu

malladittu fragu mallu

chi si furriat su callu

in gennarxu e in austu.

 

I atras cosas a muntonis,

nebodeddu, m’as cantau

chi su coru m’ant’unfrau

su xrobeddu e is callonis.

 

E immoi lassamì stai

no mi neristi pru’ nudda

ma asta a biri ca ’n sa udda

ci ddus appa a fai entrai.

 

I mi bastat su chi sciu,

ma una cosa ti dimandu

donamidda e i minn’andu

bollu su cuaddu miu.

 

 

 

Cuaddeddu, cuaddeddu,

curri senz’ ’e ti firmai

ca depeus arrivai

in tres oras a Casteddu.

 

A Casteddu ad pinnigau

gent’ ’i onnia manera:

sa pillandra furistera

su furoni, s’abogau.

 

Pinnigau ad gent’ ’e trassas

spilligambas e dottoris,

deputaus traittoris,

munzennoris e bagassas.

 

I a tottu custa genti

dd’anti posta a comandai

e po paga ant’a pigai

s’arretrangh’ ’e su molenti.

 

Frimadì: Santu Francau,

cuaddeddu, si bid giai.

Su chi seu andendi a fai

non ti dd’appu ancora nau..

 

Scurta: a fai un’abisitta

a is chi anti fattu troga

seu annundu cun sa soga

e i sa leppa in sa berritta.

 

Su chi primu appa a cassai

cun sa bella cambarada,

cuaddeddu, è su chi nada

ca ad donau a traballai

 

a su popullu famiu

in Sarroccu e in Portuturri

e chi si pònidi a curri

faid mort’’e pibizziu.                                                

 

Poita ad crup’ ’e cuddu fragu

chi mind’ ad fattu scidai

prima dd’appu a istrumpai

e apustisi ddu cagu.

 

Sigomenti anch’è parenti

de i cuddu imbrollioni

chi ad redusiu a carboni

sa foresta e i su padenti,

 

ci ddu portu a unu logu

pren’ ’e spina, sperrumau

i ddu lassu accappiau

i agoa ddi pongiu fogu.

 

 

 

 

No a biu, cuaddeddu,

cantu montis abruxaus,

cantu spina in is cungiaus

a infora de Casteddu?

 

Anti venas i arrius

alluau tottu impari

alluau anti su mari

e is tanas e is nius.

 

Bidda’ mes’abbandonadas

a i’ beccius mesu bius

a su prant’ ’e is pippius

a pobiddas annugiadas.

 

Oh, sa mellu gioventudi

sprazzinada in mesi mundu

scarescendu ballu tundu

scarescendu su chi fudi.

 

Cuaddeddu, sigomenti

de su dannu chi eu’  biu

e di aturus chi sciu

tenid curpa meda genti,

 

a accantu si pinniganta

i mi bollu accostai

e i ddus appa a ispettai

asta a biri chi no triganta.

 

Ddusu bisi: allepuccius

a ingiri’ ’e sa mesa

faccis prena’ de malesa

omineddus abramius.

 

Ma appenas a bessiri

nd’ant ’e s’enna ’e s’apposentu

donniunu ad essi tentu

e tandu eus a arriri.

 

O su meri chi scurtai

su chi nada unu cuaddu

oi ollidi – e chi faddu

gei m’ada a perdonai –

 

i ddi nau ca cussa genti

pinnigada in su corrazzu

non cumanda d’unu cazzu

funti conca’ de mollenti.

 

Chi cumandada est’attesu

custus funti srebidoris

mancai sianta dottoris

funti genti senz’ ’e pesu.

 

 

 

 

 

Fueddendu in cudda cosa

no adi intendiu fustei

nendu “yes” e nendu “okei”

cun sa oxi pibiosa?

 

Bruttu strunzu, arrogh’ ’e merda,

cussa conca in d’unu saccu

illuegu ticci zaccu

ti dda scudu a una perda.

 

De is cosa de sa genti,

o cuaddu manniosu,

maccu, zoppu i arrungiosu

no as cumprendiu niente.

 

No as cumprendiu, po nai,

chi su bruttu fragu mallu

chi ddis furriad su callu

ndiddus podisi scidai?

 

E a candu tottu impari,

meris, predis, srebidoris,

ciacciarronis, traittoris,

ci ddus anta a iscudi a mari?

 

Su srobeddu dd’asi in brenti

 

Tprrù, cuaddu, tprrù, mollenti.

Un intervento di Silvano Tagliagambe sull'Identità

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 L'IDENTITA' (2).doc

SOLO CON L’IDENTITA’

EVITIAMO IL DECLINO

DELLA NOSTRA ISOLA

di Francesco Casula

Silvano Tagliagambe, brillante filosofo ed epistemologo, molto noto anche in Sardegna  – fra l’altro per aver insegnato all’Università di Cagliari – in un recente articolo dal titolo molto significativo “Basta con l’illuminismo applicato, contro il declino dell’isola servono partecipazione e identità locali” (pubblicato su blog di Vito Biolchini), fa piazza pulita di una serie di luoghi comuni sull’Identità. “Essa rappresenta – scrive – un elemento la cui creazione e il cui consolidamento scaturiscono da tutte le funzioni, gli aspetti e i processi che costituiscono un importante fattore di coesione e di stabilità di un territorio … Senso di appartenenza e orgoglio locale sono infatti elementi che rafforzano le propensioni cooperative e sinergetiche, sia sviluppando «reti di protezione» alle singole imprese nei momenti di difficoltà, sia incrementando il potenziale di creatività locale. Il concetto di identità, in questo quadro generale, è dunque espressione diretta della struttura sociale e delle relazioni fra i soggetti che la compongono. A caratterizzarlo è l’intreccio di fattori fisici, culturali, relazionali ed economici che determinano la forma e la qualità dei singoli insediamenti e condizionano la formazione della base economica e produttiva di ogni specifica comunità. L’aspetto importante del riferimento a questi concetti è che da essi scaturisce una chiara indicazione dell’impossibilità di prescindere, nella formulazione delle politiche di crescita e di sviluppo territoriale, dalle comunità locali e dalla partecipazione e dal coinvolgimento dei soggetti che le compongono. Questo è il senso della sfida posta oggi alla classe politica e ai responsabili del governo dei sistemi sociali dall’esigenza, sempre più sentita, di fare della partecipazione ai processi decisionali e della condivisione degli obiettivi di gestione del territorio, innovazione e di crescita la base di una nuova cultura diffusa, di un nuovo «senso comune» e di un nuovo modello organizzativo, più efficaci e rispondenti alle esigenze ormai indifferibili alle quali occorre far fronte se si vuole evitare di cadere in un declino che si profila sempre più incombente e minaccioso”. Dunque – secondo Tagliagambe – per “evitare il declino” economico, prima ancora che sociale e culturale, per la crescita e lo sviluppo territoriale, occorrono identità locali, orgoglio e senso di appartenenza. E’ una rigorosa risposta ai laudatores della globalizzazione e della omologazione che negano l’Identità sarda o comunque la combattono, dopo averne fatto la caricatura. Ridotta infatti a feticcio o a folclore, a dato immutabile e immobile, è evidentemente facile contestarla e negarla. Essa invece è un elemento dinamico, da rielaborare continuamente. E non deve essere concepita come un guscio rassicurante che ci garantisce e ci difende dallo spaesamento indotto dalla globalizzazione e/o dalla diversità: essa deve invece essere accettata e riconosciuta come la condizione base del nostro modo di situarci nel mondo e di dialogare con gli orizzonti più diversi, per affrontare il presente nella sua drammatica attualità e per abitare il mondo, aperti al suo respiro, lottando contro il tempo della dimenticanza. L’identità si vive dunque nel segno della contaminazione e dell’appartenenza. L’identità è quella che diventa progetto – anche economico – e l’appartenenza diventa storia, caricandosi di vita, suscitando conflitti, impegnandosi con le lotte a trasformare il presente e costruire il futuro. Altro che feticcio o folclore!

 

Pubblicato su SARDEGNA Quotidiano del 16-7-2013

LIMBA

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CASTEDDU

IN UNA PRATZA A CHISTIONARE DE LIMBA SARDA

di Francesco Casula

Unu sero in una Pratza de Casteddu in su cuartiere de Villanova. A faeddare de limba sarda. Antzis: a faeddare in limba sarda. In medas. Mescamente giovanos e feminas. Intelletuales, giornalistas, istudiosos e amantiosos de su Sardu. Unu muntone. In unu atobiu oldinzadu, gratzias a Matteo Murgia e a s'assòtziu “Don Chisciotte”. Pro unu cunfrontu liberu subra su deretu a sa limba; subra su tempus benidore de su Sardu. “Pro chie – ant iscritu sos organizadores in Facebook – non si betat su picu a pees, pro chie non si mòssigat sa limba, pro chie no iscudit s'ossu arrabiosu a sa camba de sa mesa a posta, pro chie no andat a fàghere su tifu a sa Juve in curva nord in Casteddu, pro chie non s'intèndet discriminadu dae sa limba sua... “. S’atobiu est istadu detzisu a pustis sa dibata in su Consigiu comunale de Casteddu subra sa possibilidade de introduire in sos Cuncursos publicos sa limba sarda comente materia de sas proas. Ma in sa pratza de Casteddu ant allegadu peri de ateras chistiones e ant fatu pretzisas propostas. Casteddu, sa capitale de sa Sardigna pro su Sardu no est faghende nudda. No tenet mancu “S’Ufitziu pro sa limba sarda”: una birgonguia manna! Lu tenent deghinas e deghinas de biddas e bidditzolas e Casteddu nono! It’est aisetende a l’istituire? Ma sos cussigieris de su Comune de Casteddu connoschent sas lees subra s’amparu e s’avaloramentu de su Sardu? A comintzare dae sa lee regionale 26 (de su 1997) “la Regione assume come beni fondamentali da valorizzare la lingua sarda - riconoscendole pari dignità rispetto alla lingua italiana”, e sa lee istatale 482 (de su 1999) chi riconnoschet su Sardu comente limba de una minoria linguistica istorica? Ischint duncas sos cussigieris de Casteddu chi no b’at peruna dificultade normativa e legislativa chi potat impedumare a su sardu de fagher parte de sas materias de sos Cuncursos? Ma, a parte custa chistione, est mai possibile chi sa capitale de sa Natzione sarda no fagat nudda pro sa limba nostra? E cheret diventare capitale mediterranea? O cussigieris: ma sezis macos, tontos o iscassiados? O solu innorantes? Proae a imaginare Barcellona sena sa limba catalana? In sa toponomastica, comente in sos giornales, in sas televisiones e mescamente in sas iscolas? No diat esistere! Duncas, Casteddu, amentende sos omines e sas feminas tuas de gabale, chi ant istimadu e impreadu su Sardu: dae Sigismondo Arquer a Efisio Pintor Sirigu, dae Teresa Mundula a Aquilino Cannas, moedinde pro avalorare sa Limba sarda.

Pubblicato su SARDEGNA Quotidiano del 18- 7-2013

Sei in: News » Attualità » La democrazia sindacale di di Cgil - Cisl - Uil

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Sei in: News » Attualità » La democrazia sindacale di di Cgil - Cisl - Uil

01/08/2013, 07:33ATTUALITÀ

 

La democrazia sindacale di di Cgil - Cisl - Uil

di Francesco Casula









Nelle recenti elezioni per il rinnovo delle RSU (Rappresentanze sindacale unitarie) all’Alcoa di Portovesme questi sono stati i risultati: CUB (Confederazione unitaria di base) 149 voti,. CISL.134 voti. CGIL:106 voti. UIL:69 voti. CISAL:6 voti. In base a questi risultati la CUB risulta essere il primo sindacato con 2 delegati; la Cgil ottiene ugualmente due delegati; la CISL uno solo e la UIL nessuno. Bene: i lavoratori dell’Alcoa hanno scelto i loro cinque rappresentanti. Ma non è finita: ne avranno altri tre. Nominati dalle segreterie provinciali di CGIL-CISL-UIL. In base a un Accordo del 23 luglio 1993 fra governo, confindustria e sindacati sulle nuove relazioni sindacali che prevede che le RSU per 2/3 vengano elette dai lavoratori e per 1/3 da designazione o elezione da parte di organizzazioni stipulanti il Ccnl, (sostanzialmente CGIl-CISL-UIL) che hanno presentato liste, in proporzione ai voti ottenuti. Si tratta, come ognuno può notare, di una colossale truffa, di un ciclopico imbroglio ai danni dei lavoratori e delle loro libere scelte. Che falsa completamente e viola il principio di rappresentatività : che in questo modo non è più espressa dalla base dei lavoratori ma, per ben 1/3, da scelte a loro esterne: affidate ai burocrati e ai mandarini sindacali di CGIL-CISL-UIL. Solo perché un patto scellerato fra loro, il padronato e il governo “legalizza” tale scelta. Peraltro anticostituzionale. In quanto viola apertamente almeno tre articoli della Costituzione italiana: l’art. 3 (ovvero l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge); l’art.39 (sui sindacati): l’art.48 (sull'uguaglianza del diritto di voto). Sarebbe a questo proposito interessante sapere cosa ne pensa Landini, il segretario generale della FIOM. Che meritoriamente e giustamente si batte, con coraggio e coerenza,  contro la discriminazione del suo Sindacato da parte di Marchionne e della Fiat. Sarebbe interessante sapere se con la stessa determinazione è disposto a battersi per abolire l’infamia dell’accordo del ’93. Altrimenti la sua battaglia non è credibile. E’ chiacchiera. Finalizzata solo per la propria tanca. Per il proprio “particulare”. Non per la libertà e la democrazia sindacale. E sarebbe interessante conoscere anche l’opinione dei giuristi democratici: in genere impegnati a difendere, giustamente, la Costituzione, ma in questo caso, da due decenni, curiosamente assenti e silenti. E infine i Girotondini: avranno il tempo di dedicare qualche giro di giostra a questa scelleratezza?

 
 
 
 

Nazione Sarda e Indipendenza

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Unu meledu subra sas raighinas istoricas de sa Natzione sarda, s’Indipendentzia e s’imbrolliu de  s’Unidade de s'Italia.

 

di Francesco Casula

 

1.Nazione

Nel medioevo il termine “nazione”, per esempio per Dante “e sua nazione sarà fra feltro e feltro” (1)- indica la città: fra la città di Feltro e Montefeltro appartenenti a Cangrande della scala).

Nel basso medioevo la parola dal latino natus comincia ad essere usata per indicare gruppi umani accomunati dalla provenienza geografica: gli studenti nelle università; le sezioni territoriali dei delegati al Concilio di Costanza (1414-1418). Ancora nel secolo XVIII in Italia è impiegata per designare la comunità politica cittadina o regionale, la comunità di lingua letteraria; l’Europa intesa come comunità di cultura. Solo nel secolo XIX viene a indicare un tipo specifico di comunità politica fondata su tradizioni storiche, lingua e costumi condivisi.

Ma il concetto di nazione è uno dei più controversi della scienza politica e della storiografia. I punti di maggior controversia riguardano la diversa importanza attribuita ai fattori oggettivi e soggettivi che costituirebbero la nazione nonché la natura del nesso fra nazionalità e statualità.

a) Nazione come fatto oggettivo:

Fu J. G. Herder, considerato precursore del romanticismo, nel secondo ‘700 a sostenere la tesi che le nazioni rappresentano delle entità nettamente diverse per caratteri loro propri, fra cui essenziali sono il sangue, il territorio e la lingua. L’origine etnica delle Nazioni è stata sostenuta anche recentemente. Ma è soprattutto sulla Lingua che insistono i sostenitori della Nazione come entità obiettiva.Insistette con particolare forza il filosofo tedesco J. G. Fiche, per il quale “dovunque si trovi una lingua distinta esiste anche una nazione separata che ha il diritto di regolare i suoi affari e di autogovernarsi” (2).

E’ la posizione romantica espressa poeticamente dal Manzoni  ”Una d’arme di lingua d’altare/di memorie di sangue e di cor” (3)

b) Nazione come fatto soggettivo

A un secondo filone teorico appartengono invece le dottrine che interpretano la Nazione come un fatto di coscienza e di intenzionalità, quelle che F. Chabod (4) raccoglie sotto il termine di “volontaristiche”. In realtà Chabod traccia un’idea di carattere prevalentemente burocratico-amministrativo senza dare alcun rilievo all’elemento territoriale e a quello della lingua per esempio.

La formulazione più famosa della teoria “volontaristica” è quella contenuta nella conferenza di E. Renan (Qu’est ce qu’est une nation?, 1882): “un pebliscito di tutti i giorni …il consenso, il desiderio chiaramente espresso di continuare a vivere insieme”.

c)Nazione come prodotto della politica. In Italia M. Albertini (5) ha sostenuto che “lo stato centralizzato non poteva sussistere senza creare l’idea di un gruppo tanto omogeneo quanto era concentrato il potere. D’altra parte ne aveva i mezzi: la scuola di stato, il servizio militare obbligatorio, i grandi riti pubblici, l’imposizione a tutte le città, per diverse che fossero, dello stesso sistema amministrativo e della tutela prefettizia”.

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

1)    Dante, “Inferno, verso 105”

2)    J. G. Ficte, “Discorsi alla nazione tedesca, 1807/8)

3)    Alessandro Manzoni “lirica Marzo 1821, versi 31-32”

4)    Federico Chabod “L’idea di nazione, 1961”

5)    Mario Albertini “Lo stato nazionale1960”

 

2. La “nazione Italiana” ovvero lo Stato unitario, centralista e accentrato.

Nonostante la posizione di Cavour, che avrebbe preferito il sistema anglosassone del self-gouvernement e non il modello franco napoleonico, cui si rifaceva sostanzialmente l’ordinamento piemontese, è la scelta di stato unitario e accentrato ad imporsi con il Risorgimento italiano.

Essa è nel contempo, secondo lo storico marxista Ernesto Ragionieri (1), “specchio e indice dei rapporti di classe allora esistenti” e si ricollega – secondo Giorgio Candeloro (2)- alla “ristrettezza del ceto politico risorgimentale identificabile nell’alleanza della borghesia agraria-mercantile-bancaria centrosettentrionale con quella terriera del Sud comprendenti entrambe la maggioranza dei ceti aristocratici, più o meno imborghesiti, delle varie Regioni”. Quell’alleanza che Antonio Gramsci (3) identificava sostanzialmente nel “blocco storico” composto  della borghesia settentrionale e dal latifondo meridionale.

   Tale ristrettezza è evidenziata esemplarmente dai dati elettorali: nel 1861 su un totale dell’1,9% degli aventi diritto al voto, votarono il 50-60% e un deputato veniva eletto con qualche centinaio di voti. Se causa di tale ristrettezza è la mancata rivoluzione agraria – invano auspicata e sostenuta da Filippo Buonarroti e Carlo Pisacane ma di fatto osteggiata e comunque boicottata dai democratici come lo stesso Mazzini e Garibaldi - e non solo, naturalmente, dai moderati – la conseguenza sarà uno sviluppo economico territorialmente e regionalmente squilibrato.

   Infatti, a un modello di sviluppo economico che implica lo squilibrio territoriale, cioè il sottosviluppo di alcune parti del Paese – nella fattispecie la parte meridionale – è oggettivamente funzionale l’assenza di robuste Autonomie Locali. Infatti se i Governi regionali avessero tratto legittimazione da una investitura più vasta di quella denunciata dalla percentuale degli elettori – sopra citata – e fossero stati provvisti di potere di orientare le politiche e le economie locali in senso conforme agli interessi delle rispettive popolazioni locali, avrebbero potuto respingere un tipo di sviluppo che imponeva il sacrificio economico sociale dei loro territori.

   Quel modello di sviluppo presupponeva quindi l’assenza di consistenti Autonomie locali. Di qui risulta chiaro il nesso e l’intreccio fra accentramento politico e amministrativo, modello di sviluppo e alleanze politiche di classe.

   Tale scelta centralistica ha avuto ieri ed ha ancora oggi – sia pure molto meno - i suoi sostenitori, di parte conservatrice e liberale ma anche  se non soprattutto - di parte progressista e di sinistra, a tal punto da avere imposto e da continuare ad imporre al senso comune l’idea dello Stato unitario e centralizzato come la forma più alta e moderna di ordinamento statuale.

   Ogni altra soluzione diversa da quella centralistica e unitaria – ha sostenuto lo storico liberale Rosario Romeo (4) – sarebbe andata a vantaggio delle componenti clericali, perciò antiunitarie, filoborboniche e legittimiste. In altre parole concedere l’Autonomia rinunciando all’accentramento avrebbe significato -  è lo storico Alberto Caracciolo (5) a sostenerlo – “trasferire una parte del potere a forze che erano antagoniste rispetto a quelle che avevano guidato l’unificazione politica e l’ordinamento regionale avrebbe rappresentato un pericolo per l’unità nazionale, tanto faticosamente raggiunta”. Forze e ceti che a causa dell’esiguità e della gracilità del tessuto sociale e culturale sarebbero intenzionati – sempre secondo Caracciolo – a “servirsene in senso regressivo”. Secondo un altro storico, sempre di matrice liberale, Carlo Ghisalberti (6) “ l’accentramento amministrativo è di per sé un dato progressivo, in quanto connesso alla linea di sviluppo dello stato moderno”. In altre parole lo Stato accentrato è visto come soluzione adeguata e necessaria per l’arretratezza della società dell’epoca. In altre parole l’organizzazione e l’assetto centralistico dello Stato è coerente con il modello di sviluppo che implica lo squilibrio territoriale in cui al sottosviluppo di alcune regioni è oggettivamente funzionale l’assenza di robuste autonomie locali. Infatti dei governi regionali che avessero tratto legittimazione da una investitura più vasta di quella denunciata dalla percentuale di elettori sopra citata, e fossero stati provvisti del potere di orientare la politica e l’economia locale in senso conforme agli interessi delle rispettive popolazioni, avrebbero potuto respingere e avrebbero respinto un tipo di sviluppo che imponeva e richiedeva il sacrificio economico sociale delle loro Regioni.

    Quel modello di sviluppo presupponeva quindi come condizione necessaria – consapevoli o meno poco importa – l’assenza di consistenti autonomie locali.

    Ma si sostiene l’accentramento anche sul versante politico di sinistra, spesso in modo identico, utilizzando persino lo stesso lessico e  forse addirittura in forme ancora più nette e decise da parte dei grandi maestri e teorici illustri come Engels che sosteneva l’accentramento dello Stato unitario e indivisibile.” Il proletariato – affermava nel 1847 – può utilizzare soltanto la forma della repubblica una e indivisibile” e “non solo ha bisogno dell’accentramento com’è avviato dalla borghesia, ma dovrà addirittura portarlo più avanti”.

   Per questo lo stesso Engels combatte il Federalismo “perché semplice espressione di anacronistici particolarismi provinciali”.

    La tradizione engelsiana non influenzerà solo la sinistra ma tutto il senso comune progressista per cui l’idea dello Stato unitario e centralizzato sarà considerata la forma non solo più efficiente ma anche più alta e moderna, evoluta e giusta di ordinamento statuale; di contro, ciò che allo Stato unitario e centralista si oppone – il Federalismo – “appare come arretrato, regressivo, premoderno e residuale” (7).

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

1)     Ernesto Ragionieri, “Politica e amministrazione nella storia dell’Italia unita” Bari 1967

2)     Giorgio Candeloro, “Storia dell’Italia moderna. La costruzione dello stato unitario” vol. V, ed. Feltrinelli, Milano 1968

3)     Antonio Gramsci, “Il Risorgimento”, Ed Einaudi, Torino 1955

4)     Rosario Romeo, “Dal Piemonte sabaudo all’Italia liberale”, Torino 1963

5)     Alberto Caracciolo, “La formazione dello stato moderno” Bologna 1970 e “Stato e società civile: Problemi dell’unificazione italiana” Torino 1960

6)     Carlo Ghisalberghi, “Sulla formazione dello stato moderno in Italia” Milano 1967

7)Luigi Manconi, Unione Sarda 13.19-1983

 

3. La truffa del Risorgimento

All’inizio degli anni ’70, alcuni intellettuali fra cui Nicola Zitara, Anton Carlo e Cralo Capecelatro (di cui rimando, per i riferimenti bibliografici, al paragrafo 7 su Simon Mossa) –che verranno poi chiamati nuovi meridionalisti- furono tacciati brutalmente dall’Unità di essere filoborboni e reazionari. Avevano osato dissacrare quanto tutti avevano divinizzato: il movimento e il processo, considerato progressivo e progressista del Risorgimento; avevano osato mettere in dubbio e contestare le magnifiche sorti e progressive dello Stato unitario, sempre celebrato da chi a destra, a sinistra e a  centro aveva sempre ritenuto che tutto si poteva criticare in Italia ma non l’Italia Unita e i suoi eroi risorgimentali.

   Come spiegare diversamente –ma è solo un esempio– l’atteggiamento nei confronti di Garibaldi? Durante il ventennio fu santificato ed eletto “naturalmente”  come padre putativo di Mussolini e del regime e dunque fu “fascista”. Come fu santificato il Risorgimento, cui il Fascismo si collegava strettamente perché visto “ come il periodo di maturazione del senso dello Stato”, “uno Stato forte, realtà morale, <etica> e non naturale, che <subordina a sé ogni esistenza e interesse individuale>.

  Dopo il fascismo, prima nel ’48, alle elezioni politiche, la sua icona fu scelta come simbolo elettorale del Fronte popolare e dunque divenne socialcomunista. Negli anni ‘80 fu osannato da Spadolini – e dunque divenne repubblicano – “come il generale vittorioso, l‘eroico comandante, l’ammiraglio delle flotte corsare e l’interprete di un movimento di liberazione e di redenzione per i popoli oppressi”; fu celebrato da Craxi – e dunque divenne socialista – “come il difensore della libertà e dell’emancipazione sociale che univa l’amore per la nazione con l’internazionalismo in difesa di tutti i popoli e di tutte le nazioni offese”; infine fu persino rivendicato da Piccoli che lo fece dunque diventare  democristiano.

    Ecco è proprio questo unanimismo, questa unione sacra – destra, sinistra centro, tutti d’accordo - intorno al Risorgimento e ai suoi personaggi simbolo, che non convince; è questa intercambiabilità ideologica dei suoi “eroi” che rende sospetti. Ecco perché bisogna iniziare a fare le bucce al Risorgimento, ecco perché occorre iniziare a sottoporre a critica  rigorosa e puntuale  tutta la pubblicistica tradizionale – ad iniziare dunque dai testi di storia - intorno a Garibaldi, liquidando una buona volta la retorica  celebrativa del Risorgimento. Per ristabilire, con un minimo di decenza un po’ di verità storica occorrerebbe infatti, messa da parte l’agiografia e l’oleografia patriottarda, andare a spulciare fatti ed episodi che hanno contrassegnato, corposamente e non episodicamente, il Risorgimento e Garibaldi: Bronte e Francavilla per esempio. Che non sono si badi bene, episodi né atipici né unici né lacerazioni fuggevoli di un processo più avanzato. Ebbene, a Bronte come a Francavilla vi fu un massacro, fu condotta una dura e spietata repressione nei confronti di contadini e artigiani, rei di aver creduto agli Editti Garibaldini del 17 Maggio e del 2 Giugno 1860 che avevano decretato la restituzione delle terre demaniali usurpate dai baroni, a chi avesse combattuto per l’Unità d’Italia. Così le carceri di Franceschiello, appena svuotate, si riempirono in breve e assai più di prima. La grande speranza meridionale ottocentesca, quella di avere da parte dei contadini una porzione di terra, fu soffocata nel sangue e nella galera. Così la loro atavica, antica e spaventosa miseria continuò. Anzi: aumentò a dismisura. I mille andarono nel Sud semplicemente per “traslocare” manu militari, il popolo meridionale, dai Borboni ai Piemontesi. Altro che liberazione!

  Così l’Unità d’Italia si risolverà sostanzialmente nella piemontesizzazione” della Penisola e fu realizzata dal Regno del Piemonte, dalla Casa Savoia, dai suoi Ministri – da Cavour in primis - dal suo esercito in combutta con gli interessi degli industriali del Nord e degli agrari del Sud -  il blocco storico gramsciano – contro gli interessi del Meridione e delle Isole e a favore del Nord; contro gli interessi del del popolo, segnatamente del popolo-contadino del Sud;  contro i paesi e a vantaggio delle città, contro l’agricoltura e a favore dell’industria.

   C’è di più: si realizzerà un’unità biecamente centralista e accentrata, tutta giocata contro gli interessi delle periferie e delle mille città e paesi che storicamente avevano fatto la storia e la civiltà italiana. A dispetto del pensiero della gran parte degli intellettuali italiani che durante il “Risorgimento” e dopo furono federalisti e non unitaristi.

 

4. Gli intellettuali federalisti italiani e sardi

Di questi i libri di storia non parlano, per molti non vi è neppure un cenno: evidentemente per loro non vi è spazio, questo infatti è occupato per intero dai Cavour, Mazzini, Garibaldi. Eppure sono molti e di grande spessore culturale e politico. Un bel volumetto (1) degli storici Renzo Del Carria e Claudio de Boni documenta con puntigliosità e rigore che erano federalisti la gran parte degli intellettuali dell’Italia preunitaria (da Cattaneo a Ferrari, da Mamiani a Rosmini, da Cernuschi a Balbo e Gioberti, da Durando ad Amari, da Perez a Ferrara, da Montanelli a Busacca, da Matteucci a Busi, da Lambruschini ad Alberi e Ridolfi) come dell’Italia postunitaria (da Anelli a Bovio, da Mario a Salvemini, da Trentin ai sardi Umberto Cao, Egidio Pilia, Camillo Bellieni, Emilio Lussu). Di cui non conosciamo niente o quasi. Sono moderati altri democratici e progressisti ma tutti sono uniti da una comune analisi: la penisola italiana non era una realtà unitaria, perché dalla protostoria agli albori del Risorgimento, era stata sempre un’entità geografica e mai un’entità politica. E anche quando negli ultimi 500 anni era diventata un’entità culturale, lo era stata solo per una ristretta èlite, per la quale il toscano filtrato dallo “stil nuovo”, da Dante, Petrarca e Boccaccio, era diventata la lingua letteraria <franca>, in graduale sostituzione del precedente latino.

   Ma fino agli albori del ‘700 i vari popoli della penisola italiana costituivano delle <etnie regionali> fra loro ben distinte per usi, costumi, lingue, storia e geografia. E’ questo il motivo principale che porta la gran parte degli intellettuali dell’Italia preunitaria a sposare le tesi federaliste e non quelle unitariste e centraliste, convinti com’erano che solo la forma statuale federalista avrebbe salvaguardato l’autonomia, la diversità e la particolarità di ogni etnia, oltre che la libertà di ogni singolo cittadino.

   Fra i moderati, uno degli esponenti più lucidi è Cesare Balbo che scrive (2) :”La Confederazione è l’ordinamento più conforme alla natura e alla storia italiana perché la penisola raccoglie da sé, da Settentrione a Mezzodì, province e popoli quasi così diversi fra di loro, come sono i popoli settentrionali e più meridionali d’Europa, ondechè fu e sarà sempre necessario un governo distinto per ciascuna di tutte o quasi tutte queste province”.    Sullo stesso versante si muove Giacomo Durandonoi siamo sette nazioni o, se si vuole, sette subnazionalità provinciane. Concentrarsi in una sola non è possibile…l’italiano insulare non è lo stesso che l’eridanio o l’apennino. Il siciliano e il sardo sono, se così posso esprimermi, di una pasta differente da quella di un lombardo”.

   Sulla divisione storica si sofferma anche Terenzio Mamiani: “L’Italia è da secoli divisa e rotta in più stati e ha fra essi poca o veruna comunanza di vita politica, per la qualcosa non potendosi togliere di mezzo le divisioni e volendo pure che l’Italia sia una quanto è fattibile mai, rimane che noi ci acconciamo a quella forma di unità che sola può coesistere con la pluralità degli stati, cioè a una confederazione”.

   Fra i democratici, Carlo Cattaneo insieme a Ferrari, è l’esponente che con maggiore coerenza sviluppa il suo pensiero ponendo l’accento sul nesso inscindibile fra federalismo e libertà. Così scrive: “Non potersi conservare la libertà se il popolo non vi tiene le mani sopra. Sì, ogni popolo in casa sua sotto la sicurtà e la vigilanza degli altri tutti….io credo che il principio federale, come conviene agli stati, conviene anche agli individui. Ognuno deve conservare la sua sovranità personale, ossia la sua libera espressione…la federazione è la sola unità possibile in Italia…è la pluralità dei centri viventi ed è meglio vivere amici in dieci case che vivere discordi in una sola. Dieci famiglie ben potrebbero farsi il brodo a un solo focolare, ma v’è nell’animo umano e negli affetti domestici qualche cosa che non si appaga con la nuda aritmetica e col brodo”.

   Nella polemica con gli unitaristi e i centralisti insiste Giuseppe Ferrari secondo cui: “L’unità italiana non esiste se non nelle regioni della poesia e della letteratura e in queste regioni non si trovano popoli e non si può ordinare verun governo…la realtà italiana è la divisione storica degli stati, il diritto di ogni italiano è di vivere libero nei propri stati. E a ogni stato la sua assemblea, il suo governo, i suoi ministri, la sua costituzione. La rivoluzione conduce necessariamente le repubbliche a una federazione repubblicana”. E a fronte delle accuse di <divisione> Ferrari rispondeva: ”Fu sparso l’errore che la Federazione volesse dire divisione, dissociazione, separazione. Ma la parola federazione viene da foedus, vuol dire patto, unione, reciproco legame”.

 Sullo stesso terreno, polemizzando con Cavour, Enrico Cernuschi afferma: “Improvvisata in Italia l’unità, col sopprimere gli stati, sopprime tutti quanti i centri di emulazione, non ne vuole che uno solo, fittizio e odiato da tutti; essa offende gli interessi, le consuetudini e i sentimenti; scompone, in una parola, tutto intero il paese senza poterlo ricomporre perché ci vuole lentezza assimilante o violenza decisa a ricomporre unpaese…la federazione invece mantiene le autonomie, lascia ogni stato padrone del proprio governo, vivifica le emulazioni, acqueta gli interessi”. 

Per il sicilianoFrancesco Ferrara: ”La Sardegna è una specialità alla quale ciò che di più pernicioso può farsi è il volerla costringere ad una assimilazione completa di forme, contrastate a ogni passo dalla natura. Il Piemonte nella sua condizione di possessore di un’isola, può dirsi già fortunato dell’avere incontrato nel buon senso dei Sardi una docilità, anzi una vogliosità di fusione, che non è molto agevole rinvenire nell’indole dell’isolano; ma non ci illudiamo perciò: una nota di gratitudine, uno slancio di patriottismo non bastano a mutare il suolo, il clima, il carattere, i bisogni, le attitudini individuali e produttive, il dialetto, le conseguenze di un lungo passato.

   La grande utopia del secolo è questa delle fusioni: nulla di più agevole che congiungere e assimilare in belle frasi scappate nel calore di una improvvisazione politica….ma nulla di più puerile che l’illudersi sull’effetto reale delle belle frasi. Nella natura materiale non si combinano che molecole affini. Nella natura umana, se vi ha mezzo di combinare due popoli, è quello di non sforzarne le specialità”.

Infine i federalisti sardi.  Per tutti e quattro (Pilia e Cao, Lussu e Bellieni) la lotta contro il centralismo politico si traduce anche in critica del decentramento fino ad allora praticato, perché illusorio oppure limitato al solo momento amministrativo, senza respiri di politica regionale che sorgano dal basso e non siano mere concessioni alla “periferia” provenienti dall’alto.

   Scrive Cao: “La compartecipazione politica della Sardegna nello stato italiano, non dovrà essere limitata all’opera insufficiente di una scarsa dozzina di emissari, ineluttabilmente destinata a disperdersi nella baraonda parlamentare, ad essere irrisa e travolta nella corrotta burocrazia della capitale e vinta dalla sopraffazione dell’affarismo politico degli industriali e degli agrari….occorrerà il ristabilimento di speciali ordinamenti regionali, consoni alla loro natura etnica e allo sviluppo secolare del loro diritto”. E tutto ciò – per Cao – sarà possibile solo “con l’annientamento dell’attuale stato sfruttatore, parassitario, apoplettico, soffocatore”.

   Sostiene Pilia: ”La forma federale repubblicana apparve allora ai migliori dei nostri l’unica che potesse conciliare le esigenze della libertà e indipendenza sarda con le ragioni del movimento unitario italiano; e le pagine immortali del Tuveri e del Brusco-Onnis sono la prova di questo stato d’animo diffuso nell’Isola nei primi decenni dopo l’Unità d’Italia”

   Per Bellieni il riordinamento in senso autonomistico della regione deve dar luogo all’instaurazione di uno stato federale perché “la macchina statale del presente ci soffoca e ci opprime”. 

Lussu infine scrive che “Non basta più dire <autonomia> bisogna dire <federazione>. ”Il Federalismo non è certo una miracolosa <acqua di catrame> fatta per sanare tutti i mali, ma non v’è ombra di dubbio che la cosiddetta crisi della democrazia moderna, è in gran parte prodotto del centralismo statale….e il centralismo statale ha fatto fallimento nel nostro Paese”.

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

1)Renzo Del Carria-Claudio De Boni“Gli Stati Uniti d’Italia” ed. D’Anna, Ancona-Mressina 1991

2) Questa citazione come tutte le altre che seguiranno sono tratte dal volume citato al punto 1di Del Carria-De Boni

 

 

5. La “nazione sarda” nella storia

a)La nazione sarda nel periodo giudicale

L’espressione “nazione sarda” comincia a ricorrere con frequenza e poi sempre più insistentemente in documenti (trattati e carte diplomatiche) che accompagnano le relazioni e i conflitti fra il Giudicato di Arborea e il regno d’Aragona (1353-1410) (1)

Ma anche prima si iniziano a cogliere alcuni elementi distintivi della Sardegna che si presenta all’Italia e all’Europa: primo fra tutti la lingua con il volgare sardo, appunto fin dal 1080-85 (nel Privilegio logudorese) e poi nei diversi Condaghi ma soprattutto nella Carta De Logu.

Il termine naciò sardesca viene usato la prima volta nel documento che sancisce l’atto di pace il 24 Gennaio 1388 fra i rappresentanti di Eleonora con gli inviati del re aragonese Giovanni i il cacciatore e sta a indicare “la Sardegna non regnicola, la parte avversa alla corona, il territorio sardo riconquistatoi dai giudici e annesso allo stato arborense. Cioè la Sardegna auctotona” (2)

L’uso del termine nazione sarda è comprovato dalle stesse carte della corona di Arborea: esso sarà alla base di quel monumento storico, giuridico e linguistico della Carta. Come sosterrà Bellieni.

La lotta sanguinosa fra naciò sardesca (o nasione sardisca) e naciò catalana non si può considerare chiusa con la battaglia di Sanluri (1409), dopo di essa infatti si continua a parlare ugualmente di nazione sarda (traditrice e ribelle secondo il re di Aragona Martino il vecchio).

Affermatosi definitivamente il dominio aragonese a seguito della sconfitta dell’ultimo marchese di Oristano Leonardo Alagon (1478) la contrapposizione fra naciò sarda e naciò catalana non scompare: è presente negli atti dei parlamenti isolani e nelle richieste avanzati da questi cioè nei Capitoli di corte che erano dei patti fra la nazione e il re (3)

 b) La nazione sarda nel ‘500-‘600

L’intellighenzia isolana, dal canto suo, se una parte rimane acceccata di fronte agli splendori dell’impero spagnolo e da ascara si prostra servilmente ad esso ed evita con grande cura lo stesso termine di nazione sarda, penso allo storico Giovanni Francesco Fara (4) che usa il termine natio (scrive in latino) per indicare di “nascita”, il poeta ecclesiastico Gerolamo Araolla (5) (1545-fine secolo XVI), alle lingue castigliana e catalana contrappose una lingua sarda che potesse vantare una sua dignità sul piano letterario. Non è questa la sede per verificare i risultati del tentativo di Araolla: certo è che in lui si inizia a delineare un embrionale coscienza del rapporto fra nazione e lingua.

Che sarà ancor più forte nello scrittore Gian Matteo Garipa, orgolese (?-1640)

che scriverà « Totas sas nationes iscrien & istampan libros in sas proprias limbas naturales insoro…disijande eduncas eo ponner in platica s’iscrier in sardu pro utile de sos qui non sun platicos in ateras limbas, presento assos sardos compatriotas mios custu libru »(6).

Invito a notare i termini, estremamente chiari e significativi: parla di lingua naturale –oggi diremmo materna- che tutte le nazioni, compresa la sarda, hanno il diritto-dovere di utilizzare per rivolgersi ai “compatrioti”, ovvero ai sardi, abitanti dunque della stessa “patria”.

c) La nazione sarda nel ‘700-‘800

Ma è soprattutto nel vivo dello scontro politico e sociale che – a parere di Federico Francioni, storico sassarese (7)- prende sempre più corpo l’idea di nazione sarda. E cita il triennio rivoluzionario 1793-1796 che vedrà protagonista principale Giovanni Maria Angioy. I Sardi, prendono coscienza di sé e del proprio essere “popolo” e “nazione” prima quando si battono con successo contro l’invasione francese poi quando cacciano i piemontesi da Cagliari con il “Vespro Sardo” del 28 Aprile 1794. Al di là delle cause che stanno alla base di questo evento –scrive ancora Francioni (8) e della stessa dinamica di quelle giornate, fu indubbiamente l’esasperazione dell’atteggiamento colonialistico, quasi razzista dei ministri regi (ampiamente documentato da uno storico in questo verso insospettabile come il Manno) la classica goccia che fece traboccare il vaso.

Il senso di appartenenza identitaria e di “nazione sarda” sarà fortemente presente nella stampa e negli scritti di quel periodo di grandi cambiamenti. <Gli ordini del regno sono depositari fedeli della sorte di tutta la nazione> si afferma nel “Giornale di Sardegna” un foglio periodico organo ed espressione del gruppo più dinamico e politicamente più progressivo degli Stamenti sardi. Ancor più forte sarà il sentimento di “popolo sardo” e di “comunità nazionale” nell’Inno di Francesco Ignazio Mannu “Su patriottu sardu a sos feudatarios”; ”nell’Achille della sarda liberazione”; nella lettera “Sentimenti del vero patriota sardo che non adula” in cui l’istanza dell’abolizione del giogo feudale si coniuga con un atteggiamento anticoloniale e un sentimento nazionale sardo.

Ancor più chiaramente tale “Identità sarda” emerge nel Memoriale al Direttorio di Giovanni Maria Angioy (Agosto 1799) in cui l’Alternos (9)cerca di cogliere e di interpretare i tratti distintivi, peculiari e originali della individualità sarda, cominciando dal quadro geografico e morfologico, proseguendo con cenni sugli usi, i costumi, le tradizioni, i rapporti comunitari, l’atteggiamento dei sardi verso gli stranieri fino a quello che si potrebbe chiamare un abbozzo “del carattere nazionale”isolano. In queste pagine non c’è solo il risentimento anticoloniale o il rimpianto per gli antichi diritti e i privilegi acquisiti dalla Sardegna nel corso dei secoli: il punto di approdo dell’esperienza e della riflessione angioyna nell’esilio parigino è ormai una repubblica sarda sia pure (come del resto era inevitabile) sotto il protettorato della Grande Nation.

Nel solco tracciato da Angioy si muoveranno Matteo Simon che individua le linee di un carattere nazionale sardo più esteso e articolato ma soprattutto consapevole del legame fra nazione e lingua e Francesco Sanna Corda, parroco di Terralba che a nome del popolo e della sarda nazione tenterà una sfortunata spedizione in Gallura nel 1802.

Di carattere nazionale dei sardi parlerà il Tola, nello scritto giovanile omonimo rimasto incompiuto; di sardo dialetto parlerà lo Spano.

 

d) La nazione sarda dopo la fusione perfetta e l’unità d’Italia.

E in genere fino al 1847 nessuno dubita che la Sardegna sia una nazione: da Carlo Alberto al viceré De Launay, agli storici sardi che lo ribadiscono a chiare lettere: il quadro comincia a cambiare dopo la “perfetta fusione” : l’idea di nazione sarda è del tutto assente in Asproni e Tuveri, per Mazzini addirittura l’isola è italianissima!

L’ingresso della Sardegna nella compagine statale unitaria, la conseguente imposizione dell’uniformismo centralistico da parte dello stato liberale non porta però alla completa omologazione o alla scomparsa di quella forte caratterizzazione individuale dell’Isola che viene messa in rilievo soprattutto nella memorialistica della seconda metà dell’ottocento. Ma che soprattutto emergerà sul fronte nel primo conflitto mondiale con la “Brigata Sassari”

A questo proposito infatti –scrive Lilliu- “Forse sarebbe utile approfondire l’analisi delle gesta belliche della Brigata Sassari nella penultima grande guerra, demitizzandola nel ruolo assegnatole dalla politica e dalla storiografia nazionalistica e fascista, di fedele e strenuo campione di amor patrio italiano, di custode bellicoso della Nazione Italiana. Resistendo sui monti del Grappa, in uno spazio geografico che gli ricordava il proprio, guidati e formati ideologicamente da ufficiali (come E. Lussu) nei quali urgevano violentemente, sino a forme ritenute quasi di indipendentismo, le istanze dell’autonomia isolane, i fanti della Brigata, combattendo contro lo straniero austro-ungarico-tedesco, riassumevano tutti gli antichi combattimenti con tutti gli stranieri conquistatori colonizzatori e sfruttatori della loro terra, comprendendo fra essi, forse gli stessi “piemontesi” fondatori dello stato, centralista e unitarista italiano. In tal senso, il momento della Brigata, può essere ritenuto una trasposizione in suolo nazionale della resistenza sarda di secoli”(10).

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

1)    A. Solmi, “Studi storici sulle istituzioni della Sardegna nel medioevo” Cagliari 1917

2)    Francesco C. Casula “Breve storia della scrittura in Sardegna”, Cagliari 1978

3)    Antonio Marongiu, “I Parlamenti Sardi” Milano 1979

4)    G. F. Fara “De rebus sardois libri quatuor” Torino 1835

5)    G. Araolla “Sa vida, su martiriu et morte de sos gloriosos martires Gavinu, Brothu et Gianuari » Cagliari 1582

6)    Gian Matteo Garipa “Legendariu de santas virgines et martires de Iesu Christu” 

7)    Federico Francioni, “ Storia dell’idea di <nazione sarda>, in La Sardegna Enciclopedia, a cura di Manlio Brigaglia vol.II, ed. Della Torre” Cagliari 1989

8)    A. Boi “Giommaria Angioy alla luce di nuovi documenti” Sassari 1925

9)    Matteo Simon “Memoire pour Naponeon, 1803”

10) Giovanni Lilliu, “Costante resistenziale sarda”, ed. Fossataro Cagliari

 

6. Autonomia, e Federalismo in Lussu

Afferma in un Saggio del 1933 Emilio Lussu (1):”Frequentemente accade di parlare con uno che riteniamo federalista perché si professa autonomista e scopriamo invece, che è unitario con tendenze al decentramento. L’autonomia concepita come decentramento non è più autonomia. Gli autonomisti della Sardegna si chiamavano autonomisti perché per autonomia intendevano dire federalismo, non già decentramento. D’ora innanzi adoperando la terminologia <Federalismo> non ci saranno più equivoci”. E precisa: ”Ora la differenza essenziale fra decentramento e federalismo consiste nel fatto che per il primo la sovranità è unica ed è posta negli organi centrali dello Stato ed è delegata quando è esercitata dalla periferia; per l’altro è invece divisa fra Stato federale e Stati particolari e ognuno la esercita di pieno diritto”.

    Lussu esprime in questo passo, modernamente, con precisione e lucidità - e ancora oggi di grande attualità –la discriminante vera fra autonomia/decentramento e federalismo. E quando afferma che per fare chiarezza politica “non basta più dire <autonomia> bisogna dire <federazione>” non lo sostiene per una questione lessicale e terminologica ma di sostanza.

   La visione autonomistica – e regionalistica, aggiungo io – dello Stato è ancora tutta dentro l’ottica dello stato unitario, indivisibile e centralista, che al massimo può dislocare territorialmente spezzoni di potere dal “centro” alla “periferia”. O, più semplicemente può prevedere il decentramento amministrativo e concedere deleghe limitare e parziali alla Regione che comunque in questo modo continua ad esercitare una funzione di “scarico”, continuando ad essere utilizzata come un terminale di politiche, sostanzialmente decise e gestite dal potere centrale.

   Quando Lussa parla di sovranità “divisa” fra Stato federale e Stati particolari – o federati aggiungo io – di “frazionamento della sovranità”, pensa quindi alla rottura e alla disarticolazione dello stato unitario “nazionale” che deve dar luogo a una forma nuova di Stato di Stati, in cui “per Stati non si intendono più gli Stati nazionali degradati da Enti sovrani a parti di uno stato più grande, ma parte o territori dello stato grande elevati al rango di stati membri”(2)

   In questo modo il potere sovrano originario e non derivato spetta a più Enti, a più Stati e perciò scompare la sovranità di un unico centro – che Lussu critica in quanto “unica e assorbente”(3) – di un unico potere e soggetto singolare per fare capo a più soggetti e poteri plurali.

   Con questa impostazione Lussu supera il concetto di unipolarità con cui si indica la dottrina ottocentesca in cui libertà e diritto fondano la loro legittimità solo in quanto riconducibili alla fonte statale.

   Ma Lussu non si limita a disegnare in astratto il futuro stato federale, gli stati membri e le rispettive competenze, egli infatti individua con precisione e nettezza anche l’ente, il soggetto che dovrà costituire lo stato membro o federato: la regione.

   Così argomenta: ”La regione in Italia è una unità morale, etnica, linguistica e sociale, la più adatta a diventare unità politica. La provincia al contrario non è che una superficiale e forzata costruzione burocratica. La provincia può sparire com’è venuta, in un sol giorno, la regione rimane. La terra, il clima, le acque, la posizione geografica, antiche influenze commerciali, rapporti e attitudini particolarmente sviluppati da tempo, contribuiscono a dare a ogni regione una sua economia caratteristica e quindi una vita sociale chiaramente distinta”.

   Ho voluto citare testualmente questo passo – tratto ancora una volta da <Federalismo> – per dimostrare che non solo per Lussu il futuro stato federato dovrà identificarsi con la regione ma che fonda il suo federalismo sulla identità etno-linguistica. Vi è di più :descrivendo la regione Lussu ci dà –al di la delle sue intenzioni– un ritratto compiuto della “nazione”, modernamente intesa e da non identificare con lo stato; identificazione operata invece dalla cultura ottocentesca, che purtroppo permane ancora e che permeava profondamente la visione di Lussu tanto da indurlo a parlare di “nazione mancata”, intendendo a mio parere “stato mancato”.

   Il ritratto che Lussu delinea della regione si attaglia in modo particolare alla Sardegna che “deve essere nello stato italiano all’incirca quello che è il cantone nella confederazione svizzera e il land nella repubblica federale tedesca”.

   Quanto alla questione del nome delle entità che dovrebbero costituire lo stato federale: regioni, repubbliche, stati federati, territori autonomi, Lussu non ha dubbi: avrebbero dovuto chiamarsi <repubbliche federate>

   A chi obiettava che per diventare <stato> le nostre regioni sarebbero troppo piccole rispondeva:”Lo sarebbero come stati indipendenti, non lo sono come stati federati” E aggiunge:”Nella confederazione svizzera non vi è un solo cantone più grande delle più piccole delle regioni italiane”.

   Non era quindi il criterio del territorio – secondo Lussu – ad impedire a una regione di essere l’unità di base di uno stato federale. Inoltre l’autore di “Un anno sull’altipiano” ricordava a questo proposito che nulla vietava a due o più regioni che avessero interessi comuni o unità di vita economica di unirsi in un solo stato federale.

   Non è invece d’accordo con l’artificiosa divisione territoriale in quattro repubbliche federate, presentata allora – siamo nel 1933 – dal Partito comunista. Così Lussu argomenta:”Repubblica sarda e repubblica siciliana sta bene, ma il resto? Si può dividere l’Italia continentale nettamente in due sole parti, Nord e Sud? E dove finisce il Nord e incomincia il Sud?”

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

1) Emilio Lussu, “ Rivista Giustizia  e liberta”, n.6 de 1933

2) Norberto Bobbio “Federalismo, Introduzione a Silvio Trentin”.

3) Questa citazione come tutte le altre che seguiranno sono tratte da “Giustizia e libertà” (Vedi punto 1)

 

 

7.L’indipendenza per Antonio Simon    Mossa. Importanza della Lingua sarda

Il vizio di Onesicrito.

Un certo Onesicrito tra il 332 e il 336 a.c. aveva visitato l’India al seguito di Alessandro Magno, riportandone descrizioni alquanto fantasiose, che misero  lungo fuori strada i geografi dell’epoca.

   Partiti, Sindacati e buona parte degli studiosi e degli storici – segnatamente quelli di impronta più statalista – per decenni ci hanno dato della “Questione sarda” una descrizione alquanto “fantasiosa”,- un po’ come Onesicrito aveva dato dell’India - riducendola a un semplice frammento o appendice della “Questione meridionale”. O in ogni caso in questa affogandola.

 C’è di più: è stata considerata – come del resto l’intera Questione Meridionale - esclusivamente dal punto di vista economico ed economicistico. Non solo: ad iniziare dall’analisi gramsciana si è considerato il Sud “sottosviluppato” perché atavicamente arretrato, semifeudale, ancora precapitalistico. Tale tesi si rifaceva a Federico Engels che in una celebre lettera a Filippo Turati sosteneva appunto che il Mezzogiorno d’Italia soffriva per la mancanza di uno sviluppo capitalistico e di una rivoluzione borghese.(1)

La cartina di tornasole di questa visione della “Questione sarda” è rappresentata persino dallo Statuto speciale di Autonomia della Sardegna, tutto giocato sul crinale economicistico. Infatti – come ho già avuto modo di sostenere in un mio recente saggio su “Statuto sardo e dintorni” Artigianarte editrice, Cagliari 2001 – l’insieme degli aspetti etnoculturali e linguistici è del tutto assente, nonostante gli avvertimenti di Lussu sulla necessità di sancire l’obbligo dell’insegnamento della Lingua sarda nelle scuole in quanto “essa è un patrimonio millenario che occorre conservare" e nonostante i consigli di Giovanni Lilliu che suggeriva ai Costituenti sardi di rivendicare per la Sardegna competenze primarie ed esclusive almeno per quanto riguardava i "Beni culturali”.   

Antonio Simon Mossa:la sua figura.

 Non cade nel vizio di Onesicrito Antonio Simon Mossa: a proposito dello Statuto sardo ritiene per intanto che il suo difetto sostanziale stava proprio nel mancato riconoscimento del fatto che la Sardegna costituiva una “unità o comunità etnica ben distinta dalle altre componenti dello Stato Italiano”Simon Mossa è un architetto di talento, arredatore, urbanista e artista di genio, insegnante dell’istituto d’arte e scenografo, intellettuale dagli interessi pressochè enciclopedici e dalla forte sensibilità artistica, umanista e nel contempo eclettico da uomo del ‘700, viaggiatore colto e curioso del nuovo e del diverso tanto da spaziare con gusto e competenza nell’ambito di una pluralità vastissima di arti: dalla letteratura alla pittura e alle arti popolari. Ma soprattutto, - almeno per quanto mi interessa in questa sede - brillante ideologo e giornalista, polemista ironico e versatile.

     Non cade  - ripeto – nel vizio di Onesicrito e considera anzi la Sardegna come una colonia interna dello Stato Italiano e nel contempo una Nazione oppressa dallo stesso Stato, brutalmente e pervicacemente unitario, accentrato e centralistico

 

La Sardegna “colonia”

 In sintonia con i “Nuovi meridionalisti”, - penso in modo particolare a Nicola Zitara (2) a EdmondoMaria Capecelatro e Antonio Carlo (3), quest’ultimo fra l’altro per molti anni docente incaricato di diritto del lavoro all’Università di Cagliari – ritiene che la Sardegna sia una “colonia interna” dello Stato italiano e che dunque la dialettica sviluppo-sottosviluppo si sia instaurata soprattutto nell’ambito di uno spazio economico unitario – quindi a unità d’Italia compiuta – dominato dalle leggi del capitale.

   Simon è ugualmente in sintonia con studiosi terzomondisti come V. Baran (4) e Gunter Frank (5) che in una serie di studi sullo sviluppo del capitalismo tendono a porre in rilievo come la dialettica sviluppo-sottosviluppo non si instauri fra due realtà estranee o anche genericamente collegate, ma presuma uno spazio economico unitario in cui lo sviluppo è il rovescio del sottosviluppo che gli è funzionale: in altri termini lo sviluppo di una parte è tutto giocato sul sottosviluppo dell’altra e viceversa.

   “ L’oppressione coloniale – scrive – si è intensificata con lo Stato Italiano… l’emigrazione, la distruzione dell’economia locale, l’imposizione di modelli di sviluppo forestieri comportano effetti devastanti contro la struttura sociale del popolo sardo” (6). Attacca poi duramente “l’albagia dei colonialisti romani”(7) che si permette di considerarci “straccioni, infingardi, banditi, mantenuti e queruli mendicanti”(8). Altrettanto duro è con i Partiti italiani che “rappresentavano e servivano esclusivamente gli interessi della potenza coloniale che sfruttava la Sardegna” (9). E ancora “La partitocrazia di importazione, aspetto non secondario del fenomeno di colonizzazione e di snazionalizzazione adottato dall’Italia, nella sua funzione di potenza occupante, costituisce nella nostra terra un’etichetta esteriore, uno strumento per assicurarsi il potere a tempo indefinito della madrepatria sulla colonia” (10).

   Certo – scrive Simon Mossa – “ apparentemente lo Stato è democratico ma sostanzialmente colonialista…la potenza coloniale opprime da tanto tempo la nostra gente” (11). “Uno Stato di fatto prettamente coloniale” (12che “con i suoi organi costituzionali e di sottogoverno persistono in una politica liberticida e soffocatrice per i Sardi” (13).

   Riprendendo un articolo di Michelangelo Pira, apparso sulla Nuova Sardegna nell’Agosto del 1967 e condividendolo, lo cita testualmente:” La Sardegna ha sperimentato non solo la politica coloniale ma anche quella di colonizzazione in senso stretto. Ieri le migliori località della costa sarda erano occupati dai miliardari, oggi dal capitale forestiero industriale turistico. Ieri Arborea, oggi i poli industriali. La politica italiana è sempre stata politica colonialista, sia quando si è rivolta all’esterno con le avventure africane, sia quando si è rivolta all’interno. Sono cambiati i miti di questa politica ma la sostanza è rimasta. Che oggi siano i tecnocrati di Roma o di Bruxelles a dire quel che è bene fare o non fare in Baronia e dintorni anziché i ministri piemontesi, non cambia molto, cioè non rovescia la tendenza. Mutano le forme del colonialismo ma la sostanza politica di sfruttamento delle zone coloniali, resta” (14). 

 

La Sardegna “nazione oppressa”.

Oltre che colonia interna, per Simon Mossa la Sardegna è una “nazione oppressa”, “proibita”, “non riconosciuta” dallo Stato Italiano, emarginata dalla storia, insieme a tutte le altre minoranze etniche del mondo. In Europa al pari dei Baschi, Catalani, Bretoni, Occitani, Irlandesi etc. Contro cui è in atto un pericolosissimo processo di “genocidio” soprattutto culturale ma anche politico e sociale. Si tratta di “minoranze” che “l’mperiale geometria delle capitali europee vorrebbe ammutolire” (15).

   Per Simon Mossa, che la Sardegna abbia una sua precisa identità etno-nazionale è indubitabile, tanto da portarlo a polemizzare duramente con chi la nega:” Non crediamo certo – scrive – allo slogan “Sardegna nazione mancata” coniato dai rinunciatari di ogni tempo e di ogni colore” (16).

   Più precisamente cosi definisce la Sardegna “Noi Sardi costituiamo una comunità etnica abbastanza omogenea e compatta” (17). Lo stesso concetto ripete sia al Convegno di San Basilio a Ollolai il 22 Giugno 1969  sostenendo che la Sardegna è “Una Comunità etnica con i suoi aspetti storici, geografici, sociali, economici e culturali (Lingua, tradizioni popolari etc.)(18); sia parlando con l’Europeista Guy Heurod a Strasburgo, nell’Ottobre dello stesso anno quando afferma “ Noi concepiamo la regione come entità umana, economica, in una parola etnica”(19).

  Del resto – sostiene Simon Mossa – “Persino lo Stato ha riconosciuto, almeno formalmente una sostanziale differenza fra la Sardegna e le Regioni interne del Paese. Cioè ha implicitamente riconosciuto la Comunità etnica o il popolo sardo che dir si voglia, tale da essere degno di un vero e proprio autogoverno…di un riconosciuto diritto storico” (20). E ancora, sempre sulla stessa lunghezza d’onda, ma polemizzando sommessamente con i Sardi un po’ autocolonialisti e un po’ ascari scrive :” Gli stessi italiani più realistici e politicamente ben più avanzati dei Sardi, avevano nella loro Costituzione Repubblicana solennemente confermato il diritto della Sardegna a uno Statuto speciale, cioè gli Italiani riconoscevano in sede costituzionale il carattere di  <comunità distinta> al popolo sardo per le ragioni storiche, geografiche etniche, sociali che il Partito sardo aveva con chiarezza sin dalle origini posto sul tappeto” (21).

 

“Il Genocidio”.

Per annichilire e distruggere l’identità etno-nazionale dei Sardi è in atto – secondo Simon Mossa – “un processo forzato di integrazione che minaccia l’identità culturale, linguistica ed etnica” (22).

   Una vera e propria aggressione, un “genocidio” sia pure “sotto ad innocente maschera della difesa di determinati interessi di classe o di casta, di privilegi, di antiche sopraffazioni”(23).

   E’ lo stesso processo di “snazionalizzazione” delle minoranze etniche che vivono in Europa. “Secondo gli studi di investigatori dell’Unesco si sta arrivando – scrive Simon – a una vera e propria azione di <genocidio>. Cioè alla snazionalizzazione ad oltranza, da parte di tutte le nazioni europee verso le minoranze e le comunità etniche comprese nel proprio territorio….l’Italia che pure aderisce all’Unesco non ha mai e poi mai ottemperato alle stesse norme e gli accordi internazionali. I gravi problemi economici hanno sempre posto nella Repubblica in secondo piano i problemi delle minoranze e delle comunità etniche. L’operazione <genocidio> viene applicata egualmente in Italia con i guanti di velluto anziché col bastone” (24).

   Complici di tale <genocidio> sono anche i Sardi:” Oggi troppi sardi si lasciano comprare e si applicano con spietata brutale complicità all’opera di genocidio che si sta attuando” (25).

   E si commette genocidio “ Non solo distruggendo fisicamente un popolo. Vi sono altri modi: assoggettandolo a schiavitù e a regime coloniale, assimilandolo per mezzo dell’integrazione: questo è il più moderno, il più subdolo perché incomincia con l’intorpidimento delle coscienze, ma il punto di arrivo è lo stesso: l’uccisione della coscienza comunitaria di un popolo e la distruzione della sua personalità”(26).

   Antonio Simon Mossa, dotto in lingue diverse, viaggiatore colto e aperto alle problematiche delle minoranze etniche mondiali, ma soprattutto europee, che conosce direttamente, “de visu”, si rende conto della drammatica minaccia di estinzione che pesa su di loro: oramai sul bilico della scomparsa. Si tratta di una vera e propria catastrofe antropologica che qualche anno dopo, rispetto all’analisi e alle previsioni di Simon Mossa, sarà impietosamente documentata dal noto Centro Studi di Milano “Luigi Negro”, secondo il quale ormai ogni anno scompaiono nel mondo dieci minoranze etniche e con esse altrettante lingue, modi di vivere originali, specifici e irrepetibili, culture e civiltà. Il pretesto e l’alibi di tale genocidio è stato ed è che occorreva e che occorre superare, trascendere e travolgere le arretratezze del mondo “barbarico”, le sue superstizioni, le sue aberranti credenze, i suoi vecchi e obsoleti modelli socio-economico-culturali: espressioni di una civiltà preindustriale ormai tramontata.

   I motivi veri sono invece da individuare nella tendenza del capitalismo e degli Stati – e quindi delle etnie dominanti – a omologare e assimilare, in nome di una falsa unità, della razionalità tecnocratica e modernizzante, dell’universalità cosmopolita e scientifica, le etnie minori e marginali e con esse le differenze e specificità, in quanto “altre”, scomode e renitenti.

   Quella ”unità” di cui parla lo scrittore Eliseo Spiga in un suo recente suggestivo e potente romanzo "Capezzoli di pietra": “Ormai il mondo era uno. Il mondo degli incubi di Caligola. Un’idea. Una legge. Una lingua. Un’eresia abrasa. Un’umanità indistinta. Una coscienza frollata. Un nuragico bruciato. Un barbaricino atrofizzato. Un’atmosfera lattea. Una natura atterrita. Un paesaggio spianato. Una luce fredda. Città villaggi campagne altipiani livellati ai miti e agli umori di cosmopolis”. Che vorrebbe – aggiungo io - un mondo uniforme, una sfera rigida e astratta nell’empireo e non invece tanti mondi, ciascuno col proprio movimento e con un suo essere particolare e inconfondibile.

   Dentro l’ottica unitarista e globalizzante, le lingue delle minoranze vengono degradate, represse e tagliate, in ossequio alle lingue di Stato, imperanti e imperiali, omologanti e impoverenti, anche perché loro stesse sono ormai giunte all’afasia quasi totale: in questo modo, insieme alle lingue minori vengono distrutti e saccheggiati interi patrimoni culturali fatti di espressività popolare, di codici etici, religiosi e giuridici, di memoria e vissuto storico, di tesori artistici e ambientali.

   Simon Mossa aveva visto con i suoi occhi e in luoghi diversi tutto ciò: terribile e insieme profondo. Aveva cioè verificato la tendenza del genocidio culturale e non solo, dei piccoli popoli, delle piccole patrie, incorporate e chiuse coattivamente nei grandi leviatani europei e mondiali, “entro un sistema artificioso di frontiere statali, sottoposti a controllo permanente, con evidenti fini di spersonalizzazione, ridotti all’impotenza e di continuo minacciati delle più feroci rappresaglie se mai tentassero di rompere o indebolire la sacra unità della Patria” (27).

   Anche quando non si trattava di una vera e propria guerra, l’emigrazione di massa, il tentativo di liquidare e potare le culture e le lingue auctotone, di distruggere le attività economiche locali imponendo modelli di sviluppo estranei quando non ostili alle vocazioni naturali del territorio, portava inesorabilmente verso la distruzione etnica.

 

Finalità e obiettivi di Simon Mossa

   Questo fenomeno per l’architetto algherese avanzava anche in Sardegna: di qui le sue proposte e la sua militanza politica per bloccarlo. Egli infatti non è solo un brillante ideologo ma un leader di lotte e di iniziative, politiche e culturali concrete. E’ anzi difficile trovare – come in lui – così miracolosamente fuso il nesso teoria-prassi. E la sua azione teneva sempre conto di tutte le componenti della “Questione sarda”: da quelle economiche e sociali a quelle politiche, storiche, culturali, linguistiche ed artistiche, convinto com’era che la soluzione della “Questione sarda” doveva aggredire tutti questi nodi e dunque non limitarsi al versante esclusivamente economico. “ Il nostro obiettivo – scrive – è la liberazione della Sardegna dal giogo coloniale, la redenzione sociale del nostro popolo….Lo Stato italiano ha dimostrato e dimostra di essere ferocemente colonialista e liberticida nei nostri riguardi…noi vogliamo conquistare l’indipendenza per integrarci non per separarci nel mondo moderno. Noi siamo nella stessa posizioni di quei paesi del Terzo Mondo che, nelle loro articolazioni nazionali, hanno già compiuto i primi passi verso l’indipendenza”(28). 

   In questo passo  è delineato con nettezza l’obiettivo simoniano: rompere la dipendenza coloniale – e dunque lo sfruttamento economico – e nel contempo liberare i sardi dall’oppressione nazionale. Il tutto dentro una cornice europea e mondiale.

   Simon Mossa, algherese di famiglia, membro dunque di una minoranza (quella catalana) dentro una minoranza (quella sarda) non perde dunque mai di vista nelle sue analisi come nelle sue azioni, le numerose altre nazionalità europee ed extraeuropee, al pari di quella sarda soggette a una duplice oppressione, quella “coloniale” e quella “nazionale”. Anzi, alle minoranze del “Terzo mondo europeo” propone una Federazione: sposta così la prospettiva federalista dal terreno italiano a quello euromediterraneo. Non solo. Ribaltando la visione tradizionale del federalismo europeo, all’Europa degli Stati contrappone l’Europa delle Regioni etniche e autonome, delle comunità minoritarie, delle piccole nazionalità, ignorate, contrastate e oppresse che “avrebbero provocato un radicale mutamento degli stessi confini tradizionali degli Stati” (29).

   Di qui il suo impegno perché tra le comunità etniche europee e la comunità sarda ci fossero scambi permanenti e lavora dunque per un processo di organiche alleanze anche “per evitare la dispersione del ricco patrimonio culturale europeo costituito dalle lingue regionali e dai dialetti, dalle cosiddette lingue mozze”(30): quest’ultima frase virgolettata è dello scrittore italiano Gaspare Barbiellini Amidei, ma sicuramente Simon Mossa l’avrebbe sottoscritta. E avrebbe condiviso in toto quanto Barbiellini sostiene in un suggestivo saggio, (“Il Minusvalore”, Rizzoli ed.,Milano 1972): gli uomini ricchi – ed io aggiungo i popoli ricchi – rubano da sempre agli  uomini poveri,

-ed io aggiungo ai popoli poveri – la loro fatica, pagandola con un salario che è soltanto una parte dei loro prodotti. Il resto, plus valore, va ad accumulare altra ricchezza. Ma gli uomini – e i popoli – ricchi  rubano  agli uomini – e ai popoli – poveri anche la memoria, la lingua, la cultura, la bontà.

 

Identità, Lingua e cultura

Uno degli elementi che per Simon Mossa devasta maggiormente l’Identità di un popolo è l’attacco alla cultura e alla lingua locale: in Sardegna dunque il divieto e la proibizione della cultura e della lingua sarda, segnatamente dell’uso pubblico del Sardo.

   L’ideologo nazionalitario e indipendentista, poliglotta – conosce infatti e parla correttamente lo spagnolo, il catalano, l’inglese, il tedesco, oltre che il Sardo in tutte le sue sfumature, ma studia anche il russo, il greco e l’arabo – sa bene che un popolo senza Identità, in specie culturale e linguistica, è destinato a “morire”: “ Se saremmo assorbiti e inglobati nell’etnia dominante e non potremmo salvare la nostra lingua, usi costumi e tradizioni e con essi la nostra civiltà, saremmo inesorabilmente assorbiti e integrati nella cultura italiana e non esisteremo più come popolo sardo. Non avremmo più nulla da dare, più niente da ricevere. Né come individui né tanto meno come comunità sentiremo il legame struggente e profondo con la nostra origine ed allora veramente per la nostra terra non vi sarà più salvezza. Senza Sardi non si fa la Sardegna. I fenomeni di lacerazione del tessuto sociale sardo potranno così continuare, senza resistenza da parte dei Sardi, che come tali, più non esisteranno e così si continuerà con l’alienazione etnica, lo spopolamento, l’emarginazione economica. Ma questo discorso è valido nella misura in cui lo fanno proprio tutti i popoli parlanti una propria originale lingua e stanzianti in un territorio omogeneo, costituenti insomma una nazione che sia assoggettata e inglobata in uno Stato nel quale l’etnia dominante parli una lingua diversa” (31).

   A fronte di questo pericolo e di questo rischio reale, documentato fra l’altro dal fatto che i Sardi stanno abbandonando uno dei tratti più significativi ed essenziali della loro Identità, ovvero la propria lingua materna, Simon Mossa interviene su questo versante come su quello complessivo della Sardità e dunque dell’etnos, con i suoi scritti come con la sua iniziativa politica concreta: dalla battaglia per difendere l’autonomia di Radio Sardegna – la radio perderebbe immediatamente le sue capacità educative , scriveva ne <Il Solco letterario> del 23 Settembre 1965, se dovesse essere accentrata, unitaria e controllata da un gruppo o da una fazione politica -  ai modi auctotoni di costruzioni, alieno com’era dal seguire schemi e mode esterne.

Ha scritto Vico Mossa:” Doveva trasparire la sardità quando fu incaricato di ampliare e modificare il primo Piccolo Hotel El Faro, presso la Torre di Porto Conte, ispirandosi a partiti costruttivi delle <lolle di Assemini>…Sortì un effetto razionale ed accogliente, che piacque agli ospiti del primo vero boom turistico di Alghero: era un albergo che si attagliava alla cittadina catalana” (32).

   Sempre a proposito della sua architettura ha scritto G. B. Melis” Le sue soluzioni erano ispirate dall’arte e interpretate con senso di poesia e di genuina fedeltà alla matrice: la Sardegna, il suo mondo, valorizzato e fuso nelle realizzazioni più rispondenti alle tecniche più moderne e razionali”(33).

La sua attività di costruzione-ricostruzione dell’Identità etnonazionale dei Sardi vista in tutte le sue componenti – abbiamo già accennato a quella architettonica e artistica - è particolarmente intensa nello studio e nella valorizzazione del Sardo come del Catalano di Alghero.

Appassionato e studioso di lingua e di linguistica  - fra l’altro traduce in Sardo il Vangelo e scrive ottave deliziose – ritiene che “Il sardo lungi dall’essere un dialetto ridicolo è già, ma in ogni modo può e deve essere una lingua nella misura in cui sia parlato e scritto da un popolo libero e capace di riaffermare la propria identità”(34). A questo proposito pone questo interrogativo “ Hai mai meditato su ciò che significa l’esclusione della nostra lingua madre dalle materie di insegnamento delle scuole pubbliche e il divieto di farne uso negli atti “ufficiali”? Ci regalano insegnanti di un italiano spesso approssimativo e zeppo di provincialismo e noi non abbiamo il diritto di esprimerci adeguatamente nella nostra lingua! Ci hanno privato del primordiale e più autenticamente <autonomista> strumento di comunicazione fra gli uomini!” (35)

   Sostiene ciò nel Luglio del 1967 al Convegno- di “Studi dottrinari sardisti” a Bosa, molto prima che in Sardegna la Questione del “Bilinguismo perfetto” diventasse oggetto di discussione prima e di iniziativa politica poi: a buona ragione possiamo perciò considerare Simon Mossa il precursore più avveduto, il vero profeta e anticipatore delle proposte prima e della Legge sul Bilinguismo poi. Con acume e perspicacia aveva capito che il problema della Lingua sarda non era tanto o soltanto parlarla, magari nell'ambito familiare, ma scriverla e soprattutto insegnarla nelle Scuole e usarla nella Pubblica Amministrazione: il problema era cioè la sua ufficializzazione.

   Oggi noi nel 2002 sappiamo bene che la Lingua sarda, al di fuori di questa prospettiva è destinata a morire o, al massimo, a vivacchiare e languire, marginalizzata e ghettizzata nei bomborimbò delle feste paesane. Simon Mossa questo lo aveva capito ben più di 30 anni fa: di qui la sua azione.

Nel 1960 pubblica il periodico “Reinaixencia nova” scritto completamente in catalano. Il 10 Settembre 1961 organizza con il Centro d’Estudios Algheresos – di cui è Presidente – “Giochi floreali della lingua catalana” ad Alghero;  nello stesso periodo promuove una “Sezione per la poesia algherese” all’interno del “Premio Ozieri” (36) a cui peraltro aveva segretamente concorso nello stesso 1961 con una poesia in sardo (titolo: ”Cabras”) ottenendo il sesto premio e la menzione speciale d’onore, prima che nell’anno successivo entrasse nella Giuria stessa del premio.

   La valorizzazione delle tradizioni popolari come delle gare poetiche per Simon Mossa non è vista però come mania estetizzante e folclorica ma come sforzo – uso volutamente una bella espressione di Antonello Satta -  “per tentare di non far inaridire le radici culturali intime della nostra sfiorita nazionalità” (37). E sa limba è per Simon Mossa lo strumento fondamentale: per combattere “l’integrazione e l’oppressione unitarista statuale“ (38); per opporsi “al massiccio attacco in atto dell’imperialismo delle <culture superiori> e delle maggiori comunità etniche nazionali”(39); “|per la rivoluzione sarda per l’indipendenza, non tanto e non solo di emancipazione e economica e sociale ma anche e soprattutto di libertà dell’intero popolo in senso etnico, etico e culturale”(40).

   Per Antonio Simon Mossa il problema dell’autonomia culturale del popolo sardo fu dunque quello centrale in tutto il suo pensiero e in tutta la sua appassionata azione politica. Per questo la questione della Lingua sarda, ovvero “della possibilità di scambio, di informazione e di istruzione nell’ambito della comunità, senza la presenza del dominatore e senza la sua tutela, aveva per lui tanto rilievo” (41). Egli infatti vedeva la difesa e lo sviluppo dell’autonomia culturale, non tanto – o non solo – come la riscoperta o il recupero, in qualche modo etnografico e antropologico, degli antichi valori e degli istituti giuridici, etici, consuetudinari o come la cernita minuta di quanto sia vivo e di quanto sia morto nel magma della tradizione isolana; bensì come ricerca proiettata nel futuro, dell’identità nazionale dei Sardi. E ricerca “non puramente storica e letteraria, ma come resistenza e lotta popolare contro l’asfissia e il livellamento culturale perpetrati dal capitalismo e dall’imperialismo. Non gli era sfuggito che quindi senza la riaffermazione dell’autonomia culturale, anche la più gloriosa lotta di liberazione popolare può approdare a risultati solo parziali e precari” (42).

 

 

 

Conclusione

Da più parti si è parlato di Antonio Simon Mossa come di un vecchio cavaliere ed eroe romantico, di un apostolo, di un nuovo profeta, idealista e utopista. Può darsi. Forse era anche “irragionevole”. Ma di quella irragionevolezza di cui parlava un caustico esponente della cultura europea del primo Novecento quando affermava che l’uomo ragionevole si adatta al mondo, l’uomo irragionevole vorrebbe adattare il mondo a se stesso: per questo ogni progresso dipende dagli uomini irragionevoli.

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

1.     Marx-Engels, “Corrispondenze con Italiani” Milano 1864.

2.     Nicola Zirara, “L’Unità d’Italia- nascita di una colonia”, ed. Jaca-Book,

                             Milano, 1971.

E. M. Capecelatro- A. Carlo, “Contro la Questione Meridionale”, ed.

                             Savelli, Roma 1972.

3.     V. Baran, “Il surplus economico e la teoria marxiana dello sviluppo”,

                       Milano,1966                            

5.  Gunter Frank, “Capitalismo e sottosviluppo in America latina, Torino 1969       

6.     Relazione in ciclostilato nella Riunione di Ollolai (10 Giugno 1967) nei monti del Santuario di Santu Basili, ora in “Antonio Simon Mossa: Le ragioni dell’indipendentismo” Ed. S’Iscola Sarda. Sassari 1984 a cura di Cambule-Giagheddu-Marras e in “Sardisti” vol.II di Salvatore Cubeddu, Ed. EDES, Sassari 1995, pagg.476-477.

7.     La Nuova Sardegna 4 Agosto 1967:”No ai Sardi straccioni” di Fidel.( Lo pseudonimo con cui Antonio Simon Mossa firmava, per la gran parte, i suoi articoli: Altri pseudonimi cui ricorse furono: “Giamburrasca”, “Il Moro”, “Cecil”.

8.     Ibidem.

9.     Tesi di F. Riggio, Etnia e Federalismo in Antonio Mossa, relatore il Prof. Giancarlo Sorgia, Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Cagliari, A.A. 1975-76.

10.           Ibidem.

11.           Ibidem.

12.           La Nuova Sardegna 1° Agosto 1967.

13.           Ibidem.

14.           La Nuova Sardegna, Agosto 1967, Intervento di Michelangelo Pira.

15.           La Nuova Sardegna, 28 Ottobre 1972, Intervento di Eliseo Spiga.

16.           La Nuova Sardegna, 4 Agosto 1967, art. cit.

17.           La Nuova Sardegna, 2 Settembre 1965, Fidel.

18.           Relazione al Convegno di Ollolai, cit. al punto 6.

19.           La Nuova Sardegna 18 Agosto 1971, Intervento di Mario Melis.

20.           Lettera ad Anselmo Contu l’11 Novembre 1967 ora in “Sardisti” op. cit. pag.481-494.

21.           Tesi di Riggio, op. cit. pag.17

22.           “L’Autonomia politica della Sardegna” – Nota critica introduttiva – Ed. Sardegna libera, Sassari 1966.

23.           La Nuova Sardegna 20 Agosto 1965, ora in “Sardisti” op. cit. pag.458

24.           La Nuova Sardegna 2 Settembre 1965, op. cit.

25.           La Nuova Sardegna 11 Agosto 1967, Intervento di Fidel.

26.           Ibidem.

27.           “Il Partito sardo d’azione e la lotta di liberazione anticolonialista” in Sardegna libera, anno1° n.2 Aprile 1971, Sassari.

28.           Ibidem

29.           Gian Franco Contu, Sa Republica Sarda, Dicembre 1971.

30.           Gaspare Barbiellini Amidei, Corriere della sera, 1° e 8 Dicembre 1971.

31.           La Nuova Sardegna, 18 Agosto 1971, op. cit.

32.           Sardisti, op. cit. pag. 449-450.

33.           La Nuova Sardegna 18 Agosto 1971, Intervento di G. B. Melis.

34.           La Nuova Sardegna 8 Agosto 1972, Intervento di Michelangelo Pira.

35.           La Nuova Sardegna 11 Agosto 1967 Intervento di Fidel.

36.           La Nuova Sardegna, 25 Luglio 1972.

37.           La Nuova Sardegna,20 Maggio 1973, Intervento di Antonello Satta.

38.           Sardegna Libera, Aprile 1971.

39.           Ibidem.

40.           Ibidem.

41.           La Nuova Sardegna, 28 Ottobre 1972,Intervento di Eliseo Spiga, op. cit.ù

42.           Ibidem           

 

 

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

1)    Dante, “Inferno, verso 105”

2)    J. G. Ficte, “Discorsi alla nazione tedesca, 1807/8)

3)    Alessandro Manzoni “lirica Marzo 1821, versi 31-32”

4)    Federico Chabod “L’idea di nazione, 1961”

5)    Mario Albertini “Lo stato nazionale1960”

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

1)     Ernesto Ragionieri, “Politica e amministrazione nella storia dell’Italia unita” Bari 1967

2)     Giorgio Candeloro, “Storia dell’Italia moderna. La costruzione dello stato unitario” vol. V, ed. Feltrinelli, Milano 1968

3)     Antonio Gramsci, “Il Risorgimento”, Ed Einaudi, Torino 1955

4)     Rosario Romeo, “Dal Piemonte sabaudo all’Italia liberale”, Torino 1963

5)     Alberto Caracciolo, “La formazione dello stato moderno” Bologna 1970 e “Stato e società civile: Problemi dell’unificazione italiana” Torino 1960

6)     Carlo Ghisalberghi, “Sulla formazione dello stato moderno in Italia” Milano 1967

7)Luigi Manconi, Unione Sarda 13.19-1983

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

1)Renzo Del Carria-Claudio De Boni“Gli Stati Uniti d’Italia” ed. D’Anna, Ancona-Mressina 1991

2) Questa citazione come tutte le altre che seguiranno sono tratte dal volume citato al punto 1di Del Carria-De Boni

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

1)    A. Solmi, “Studi storici sulle istituzioni della Sardegna nel medioevo” Cagliari 1917

2)    Francesco C. Casula “Breve storia della scrittura in Sardegna”, Cagliari 1978

3)    Antonio Marongiu, “I Parlamenti Sardi” Milano 1979

4)    G. F. Fara “De rebus sardois libri quatuor” Torino 1835

5)    G. Araolla “Sa vida, su martiriu et morte de sos gloriosos martires Gavinu, Brothu et Gianuari » Cagliari 1582

6)    Gian Matteo Garipa “Legendariu de santas virgines et martires de Iesu Christu” 

7)    Federico Francioni, “ Storia dell’idea di <nazione sarda>, in La Sardegna Enciclopedia, a cura di Manlio Brigaglia vol.II, ed. Della Torre” Cagliari 1989

8)    A. Boi “Giommaria Angioy alla luce di nuovi documenti” Sassari 1925

9)    Matteo Simon “Memoire pour Naponeon, 1803”

10) Giovanni Lilliu, “Costante resistenziale sarda”, ed. Fossataro Cagliari

 

 

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

1) Emilio Lussu, “ Rivista Giustizia  e liberta”, n.6 de 1933

2) Norberto Bobbio “Federalismo, Introduzione a Silvio Trentin”.

3) Questa citazione come tutte le altre che seguiranno sono tratte da “Giustizia e libertà” (Vedi punto 1)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Grazia Deledda

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Grazia Deledda

 

Il 15 agosto scorso ricorreva il 77° anniversario della morte di Grazia Deledda

1. Grazia Deledda e il suo linguaggio*.

Per comprendere bene la lingua che utilizza la Deledda nei suoi scritti occorre partire da questa premessa: La lingua sarda non è un dialetto italiano –come purtoppo ancora molti affermano e pensano, in genere per ignoranza- ma una vera e propria lingua. Noi sardi dunque, siamo bilingui perché parliamo contemporaneamente il Sardo e l’Italiano. Anche la Deledda era bilingue. Era una parlante sarda e i suoi testi in Italiano rispecchiano, quale più quale meno le strutture linguistiche del sardo, non tanto o non solo in senso tecnico quanto nei contenuti valoriali, nei giudizi, nei significati esistenziali, nelle struttura di senso inespresse ma presenti nel corso della narrazione.

A parere di uno dei più grandi linguisti sardi, Massimo Pittau, la povertà nel lessico italiano della Deledda, è determinato da un fatto psichico: la paura di sbagliare. Dunque noi bsardi non adoperiamo –come la Deledda- mai vocaboli come: arena, brocca, chicchera, fontana, padella, pigliare, rammentare, tappo, tornare etc. etc. perché pensiamo che siano altrettanti “sardismi”, quando invece non lo sono e utilizziamo solo sinonimi: sabbia, anfora, tazzina, fonte, pentola prendere, ricordare, turacciolo, restituire etc.etc.

Per colpa di questa paura –almeno, ripeto, a parere di Pittau- il lessico degli scrittori sardi come la Deledda, risulta impoverito, soprattutto nei suoi scritti giovanili, perché in quelli della maturità risulta più ricco.

L’altro elemento che occorre ricordare è che il più delle volte la Deledda –ma succede anche a molti sardi, pure grandi scrittori- pensa in sardo e traduce meccanicamente in italiano, soprattutto “nel parlare dialogico” –è sempre Pittau a sostenerlo e io sono d’accordo_ come in :”Venuto sei? –che traduce il sardo:Bennidu ses?; o “Trovato fatto l’hai?-Accatadu fattu l’as?: o ancora “A Luigi visto l’hai? –A Luisu bidu l’as?; o “Quando è così, andiamo –Cando est gai, andamus.

Gli scritti della Deledda sono zeppi di queste frasi.

Infine vi sono innumerevoli vocaboli tipicamente sardi e solamente sardi che Deledda inserisce nelle sue opere quando attengono all’ambiente sardo: pensiamo a tanca (terreno di campagna chiuso da un recinto fatto in genere di sassi),socronza- usatissima in Elias Portolu (consuocera), corbula(cesta), bertula (bisaccia), tasca (tascapane), leppa (coltello a serramanico), leonedda /zufolo), cumbessias o muristenes(stanzette tipiche delle chiese di campagna un tempo utilizzate per chi dormiva là per le novene della Madonna o di Santi), domos de janas (tombe rupestri e letteralmente “case delle fate”).

Vi sono inoltre intere frasi in sardo come: frate meu (fratello mio), Santu Franziscu bellu (San Francesco bello), su bellu mannu (il bellissimo, letteralmente il bello grande), su cusinu mizadu (il borghese con calze), a ti paret? (ti sembra?), corfu ‘e mazza a conca (colpo di mazza in testa), ancu non ch’essas prus (che tu non ne esca più :è un’imprecazione).

Per non parlare dei nomi che risultano tronchi nella sillaba finale quando è  “complemento vocativo”, tipico modo di dire sardo ma soprattutto nuorese e barbaricino: Antò (Antonio),Colù (Colomba), Zosè= Zoseppe (Giuseppe), Zuamprè=Zuampredu (Giampietro), pride Defràpride Defraia (prete Defraia).

Qualche volta Deledda ricorre a frasi italiane storpiate in sardo o frasi sarde storpiate in italiano, quelle minsomma che noi barba ricini chiamiamo italiano “porcheddino”: ”Come ho ammaccato questo cristiano così ammaccherò te (…) Avete compriso?”.

Pro finire ricordo anche che la Deledda traduce vocaboli sardi o espressioni tipicamente sarde, quando non mesiste il corrispondente in italiano: Perdonate= perdonae in nugoresu (voce verbale con cui ci si scusa con un accattone quando non gli si può o non gli si vuole fare l’elemosina);botteghiere= buttegheri in nugoresu (invece di bottegaio);male donne= malas feminas in nugoresu (invece di donnacce); maestra di parto= mastra ‘e partu in nugoresu (invece di levatrice); maestro di muri, maestro di legno, maestro di ferro= mastru ‘e muru, mastru ‘e linna, mastru ‘e ferru (invece di muratore, falegname, fabbro)

Occorre però chiarire che i sardismi linguistici della Deledda non derivano dalla sua incapacità di utilizzare correttamente la lingua italiana ma da una scelta voluta e consapevole.

L’influsso della Sardegna e della lingua sarda nelle opere della Deledda non riguarda solo le forme sintattiche o il lessico ma anche –per non dire principalmente- le tematiche, i costumi, le immagini, i detti, i proverbi: per dirlo con una sola parola: l’intera civiltà sarda.

Ma sui “Sardismi” della Deledda ecco cosa scrive una critica sarda, Paola Pittalis [in Il ritorno alla Deledda, <Ichnusa>,rivista della Sardegna, anno 5, n.1 Luglio-Dicembre 1986, pag.81]: “La Deledda utilizza costantemente “Zio” –e più spesso ziu- per indicare “signore”. Si tratta di uno dei tanti “sardismi” presenti nella sua opera insieme a numerosi vocaboli tipicamente ed esclusivamente sardi (socronza:consuecera; bertula:bisaccia, leppa:coltello); o a calchi sintattici (come venuto sei? Traduzione letterale del sardo bennidu ses?).

L’uso dei “sardismi” linguistici da parte della Deledda anche nelle opere della maturità –è il caso di Elias Portolu- è consapevole e voluto. Rappresenta anzi una chiara e decisa scelta di linguaggio letterario, di canone stilistico e fa parte del suo essere “bilingue”. Ciò non significa che in questa scelta non sia stata condizionata da fenomeni letterari e culturali esterni, -come il verismo- che prevedevano la raffigurazione oggettiva della realtà da parte dello scrittore che doveva riportare fedelmente il linguaggio popolare e “dialettale” dei personaggi.

A questo proposito occorre secondo molti critici liquidare risolutamente il luogo comune della “cattiva lingua” e della “mancanza di stile” appoggiato alla valutazione di intellettuali di prestigio da Dessì (le “sgrammaticature” di Deledda) a Cecchi (la sua lingua “spampanata”). Si tratta invece –secondo Paola Pitzalis- “di forme nate dall’incontro fra dialetto e italiano nel momento di formazione delle varietà designate oggi come <italiani regionali>. L’uso di vocaboli dialettali, sardismi sintattici e atti linguistici frequenti in Sardegna è intenzionale, tanto è vero che scompaiono quando l’interesse di Deledda si sposta dal romanzo <verista> e <regionale> al romanzo <psicologico> e <simbolico> (dopo il 1920). La sintassi prevalentemente paratattica, non equivale alla mancanza di stile; deriva dal trasferimento nella scrittura di modalità anche linguistiche di costruzione del racconto orale (è questo un percorso suggestivo sul quale da tempo lavora con esiti personali Sole). Ed è il contributo modernizzante di Deledda allo snellimento della lingua letteraria italiana costruita sul modello della frase manzoniana…” [Paola Pittalis, Il ritorno alla Deledda, <Ichnusa>, rivista della Sardegna, anno 5, n.1 Luglio-Dicembre 1986, pag.81].

 

2. Una poesia di Deledda in lingua sarda. 

Massimo Pittau, -che ho già nominato parlando del linguaggio della Deledda- il  19-2-1993 ha ritrovato una sua poesiola in lingua sarda. E’ lui stesso a riferirci come l’la “scoperta”: "Ebbene, uno di questi librai, sotto la firma di LIM Antiquaria sas - Studio Bibliografico, via di Arsina 216/A, 55100 Lucca, nel suo catalogo 35 intitolato "Autografi", pagg. 25, 26, mette in vendita un autografo di Grazia Deledda ventunenne, che riporta una poesiola scritta in lingua sarda, ma con la traduzione italiana, intitolata "America e Sardigna". Io ritengo che si tratti di un componimento inedito e per questo mi piace darne comunicazione con questo mio breve scritto".

 

La poesia s'intitola

America e Sardigna

- O limbazu chi ammentas su romanu

durche faeddu de sa patria mea,

tristu comente cantu 'e filumena

chi in sas rosas si dormit a manzanu,

- cola su mare, e cando in sa fiorida

America nche ses a tottus nara

chi s'isula 'e Sardigna isettat galu

de esser iscoperta e connoschida...

 

Certo, scrive Pittau, è una poesiola di poco valore poetico, però è importante perché segna l’attività letteraria della scrittrice sarda ma soprattutto è un documento da cui si evince  il desiderio e l’apirazione della poetessa nuorese a far conoscere la Sardegna che aspettava, ai suoi tempi, e ancora aspetta, di essere scoperta e conosciuta.

 

*Tratto da Uomini e donne di Sardegna, di Francesco Casula, Alfa editrice, Quartu Sant’Elena, seconda edizione, 2010. (pagg.133-135)

Nanneddu meu di Peppino Mereu

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PEPPINO MEREU

Il poeta “maledetto”, il poeta socialista (1872-1901)

Nasce a Tonara (Nuoro) il 14 Gennaio 1872. Il padre, medico condotto del paese muore accidentalmente nel 1889 bevendo del veleno che aveva scambiato per liquore. Interrompe gli studi dopo la terza elementare –a Tonara non esistevano altre scuole e per proseguire gli studi avrebbe dovuto recarsi fuori dal paese- e diventa sostanzialmente un autodidatta: non si spiega diversamente la sua conoscenza del latino e della mitologia classica cui fa riferimento in alcune sue poesie.

Da giovanissimo inizia a cantare e a scrivere poesie frequentando i poeti tonaresi più noti: Bachis Sulis e altri. A 19 anni e precisamente il 7 Aprile 1891 si arruola volontario carabiniere: durante i cinque anni della vita militare in vari paesi dell’Isola, visse fra Nuoro e Cagliari, Osilo, Sassari, –i cui nomi figurano nelle date di alcune poesie-  dove conosce alcuni poeti sardi. Canta le sue poesie nelle feste e nelle sagre paesane dimostrando grandi capacità poetiche e di improvvisazione. Questi anni (1891-1895) segnano profondamente la sua formazione: prende coscienza delle ingiustizie e degli abusi di potere, tipici del sistema militare. Di qui la sua critica spietata al ruolo dei carabinieri, che invece di essere difensori della giustizia sono spesso alleati degli stessi trasgressori della legge. Significativi a questo proposito i versi diventati a livello popolare famosissimi, soprattutto nel Nuorese: Deo no isco sos carabinerisi/in logu nostru proite bi suni/e non arrestan sos bangarutteris. (Io non capisco perché/da noi ci sono i carabinieri/e non arrestano i bancarottieri).

Proprio in questi anni prende consapevolezza dei problemi socio-economici-culturali della Sardegna e aderisce alle idee socialiste del tempo, un socialismo utopistico in cui il poeta individua la soluzione per i problemi delle classi lavoratrici e oppresse. Idee e valori socialisti che Mereu  diffonde affidandosi alle sue poesie per sostenere con nettezza, prima di tutto la libertà e l’uguaglianza: Senza distinziones curiales/devimus esser, fizos de un’insigna/liberos, rispettados, uguales(Senza distinzioni curiali/ dobbiamo essere figli di una stessa bandiera/:liberi, uguali, rispettati). Per continuare con la rivendicazione del suffragio elettorale che i Socialisti propugnavano con forza e che il poeta di Tonara così canterà, -proprio nel 1892, anno della nascita del Partito socialista- Si s’avverat cuddu terremotu/su chi Giacu Siotto est preighende/puru sa poveres’ hat haer votu/happ’a bider dolentes esclamende/<mea culpa> sos viles prinzipales/palattos e terrinos dividende/. (Se si avvera quel terremoto/per cui sta pregando Giago Siotto/che anche i poveri potranno votare/potrò vedere, addolorati, gridare/<mea culpa>i vili printzipali/a dividere palazzi e terreni/).

Oltre a denunciare le ingiustizie sociali e i soprusi subiti dal popolo -che in A Genesio Lamberti, invita alla ribellione- Mereu mette a nudo la “colonizzazione” operata dal regno piemontese e dai continentali, cui è sottoposta la Sardegna: Sos vandalos chi cun briga e cuntierra/benint dae lontanu a si partire/sos fruttos da chi si brujant sa terra, (I vandali con liti e contese/ vengono da lontano/a spartirsi i frutti/dopo aver bruciato la terra). E ancora: Vile su chi sas jannas hat apertu/a s’istranzu pro benner cun sa serra/a fagher de custu logu unu desertu(Vile chi ha aperto la porta al forestiero /perché venisse con la sega/e facesse di questo posto un deserto).

Il poeta il 6 Dicembre 1895 per motivi di salute viene congedato: ritorna così a Tonara. La sua produzione poetica se da una parte è pervasa da motivi melanconici, dall’altra accentua la critica ai rappresentanti della Chiesa e del potere locale; se da una parte srotola poesie “della morte”, dall’altra dipana componimenti scherzosi e allegri, brevi ritratti schizzati in punta di penna di figure e fatti di paese, irridente e maledicente come quando in Su Testamentu,sentendo ormai prossima la morte, nel confessarsi accusa e maledice, cantando con tutta l’amarezza di un cuore esacerbato, che raggiunge toni epici di violenza espressiva: pro ch’imbolare unu frastimu ebbia/a chie m’hat causadu custa rutta/vivat chent’annos ma paralizzadu/dae male caducu e dae gutta (per lanciare una sola maledizione/colui che è stato causa di questa mia disgrazia/viva cent’anni ma paralizzato/dall’epilessia e dalla gotta).

Consumato dalla tisi, che candela de chera (come una candela di cera) muore l’11 marzo 1901 a soli 29 anni.

A NANNI SULIS

 1.

NANNEDDU meu,

su mund'est gai,

a sicut erat1

non torrat mai.

2.

Semus in tempos

de tirannias,

infamidades

e carestias.

3.

Como sos populos

cascant che cane,

gridende forte

«Cherimus pane».

4.

Famidos, nois

semus pappande

pane e castanza,

terra cun lande.

5.

Terra c'a fangu

Torrat su poveru

senz'alimentu,

senza ricoveru.

6.

B'est sa fillossera2,

impostas, tinzas,

chi non distruint

campos e binzas

7. .

Undas chi falant

in Campidanu

trazan3 tesoros

a s'oceanu.

8.

Cixerr'in Uda,

Sumasu, Assemene,

domos e binzas

torrant a tremene.

9.

E non est semper

ch'in iras malas

intrat in cheja

Dionis'Iscalas.

10.

Terra si pappat,

pro cumpanaticu

bi sunt sas ratas

de su focaticu.

11.

Cuddas banderas

numeru trinta,

de binu onu,

mudad'hant tinta.

12.

Appenas mortas

cussas banderas

non piùs s'osservant

imbreagheras.

13.

Amig' a tottus

fit su Milesu,

como lu timent,

che passant tesu.

14.

Santulussurzu

cun Solarussa

non sunt amigos

piùs de sa bussa.

15.

Semus sididos

in sas funtanas,

pretende sabba

parimus ranas.

16.

Peus su famene

chi, forte, sonat

sa janna a tottus

e non perdonat.

17.

Avvocadeddos,

laureados,

bussacas buidas,

ispiantados

18.

in sas campagnas

pappana4 mura,

che crabas lanzas

in sa cresura.

19.

Cand'est famida

s'avvocazia,

cheres chi penset

in Beccaria? 5

20.

Mancu pro sognu,

su quisitu

est de cumbincher

tant'appetitu.

21.

Poi, abolidu

pabillu e lapis

intrat in ballu

su rapio rapis6.

22.

Mudant sas tintas

de su quadru,

s'omin' onestu

diventat ladru.

23.

Sos tristos corvos

a chie los lassas?

Pienos de tirrias

e malas trassas.

24.

Canaglia infame

piena de braga,

cherent siscettru

cherent sa daga!7

25.

Ma non bi torrant

a sos antigos

tempos de infamias

e de intrigos

26.

Pretant a Roma

Mannu est sostaculu ;

Ferru est sispada

Linna est su baculu

27.

S’intulzu apostolu

De su segnore

Si finghet santu

Ite impostore!

28.

Sos corvos suos

Tristos, molestos

Sunt sa discordia

De sos onestos

29.

E gai chi tottus

Faghimus gherra

Pro pagas dies

De vida in terra

30.

Dae sinistra

Oltad’a destra,

e semper bides

una minestra.

31.

Maccos, famidos,

ladros, baccanu

faghimus, nemos

halzet sa manu

32.

Adiosu, Vanni,

tenedi contu,

faghe su surdu,

ettad'a tontu.

33.

A tantu, l'ides,

su mund'est gai

a sicut erat

non torrat mai.

 

Tra i componimenti che conosciamo è uno di quelli in cui sono maggiormente presenti finalità satiriche e politiche, civili e sociali, con una netta e precisa presa di posizione del poeta contro la malasorte, le ingiustizie del suo tempo e indirettamente contro la politica nordista e colonialista del governo sabaudo che sarà più esplicita in altri componimenti. Ricordiamo infatti che siamo alla fine dell’Ottocento, quando il nuovo stato unitario, nel tentativo di omogeneizzare gli “Italiani” emargina e penalizza –dal punto di vista economico e sociale ma anche culturale e linguistico- la Sardegna e il meridione, favorendo invece il Nord del paese. Soprattutto in seguito alla rottura dei Trattati doganali con la Francia (1887) e al protezionismo tutto a beneficio delle industrie del Nord e a danno del commercio dei prodotti agro-pastorali dell’Isola.

Il quadro che emerge da Nanneddu meu è quello di un’Isola dominata da tempos de tirannias; assediata da carestias che producono fame, costringendo il popolo a nutrirsi cun pane, castanza e lande; devastata da catastrofi naturali che distruint campos e binzas con sa filossera e sas tinzas; popolata da avvocadeddos ispiantados e quindi facilmente ricattabili; da preti avidi, tristos corvos/ pienos de tirrias/ e malas trassas.

Dal punto di vista formale in “Nanneddu meu” Mereu introduce nel già ricco sistema metrico sardo la quartina di quinari (con lo schema metrico ABCB, con il secondo verso che fa la rima sempre con il quarto). A proposito della quartina introdotta nel sistema metrico sardo qualche critico ha evocato il Giusti, di cui non a caso Mereu pone in apertura di Galusè, una sua un’epigrafe.

Il tono è ora di denuncia, aspro, acre e amaro; ora disincantato malinconico e perfino tenero.

Leonardo Sole scrive che “A Nanni Sulis offre un bell’esempio di poesia sociale, aspra e pungente contro gli sfruttatori continentali che hanno disboscato l’isola e continuano a spogliarla con l’aiuto dei prinzipales sardi”.

DAE UNA LOSA ISMENTIGADA

1.

Non sias ingrata, no, para sos passos,

o giovana ch' in vid' happ'istimadu.

Lassa sas allegrias e ispassos

e pensa chi so inoghe sepultadu.

Vermes ischivos si sunt fattos rassos

de cuddos ojos chi tantu has miradu.

Para, par' un'istante, e tene cura

de cust' ismentigada sepoltura.

2.

A ti nd'ammentas, cando chi vivia

passaimis ridend'oras interas?

Como happ' una trista cumpagnia

de ossos e de testas cadaveras,

fin' a mortu mi faghent pauria

su tremendu silenziu 'e sas osseras.

E tue non ti dignas un'istante

de pensare ch' inog' has un amante!

3.

Ben' a' custas osseras, cun anneos,

si non est falsu su chi mi giuraist,

e pensa chi bi sunt sos ossos meos,

sos ossos de su corpus ch'istimaist;

fattos in pruer, non pius intreos

coment' e cand' a biu l'abbrazzaist.

Non pius agattas sas formas antigas,

ca so pastu de vermes e formigas.

4.

Bae, ma cando ses dormind' a lettu

una oghe ti dèt benner in su bentu,

su coro t'hat a tremer' in su pettu

a' cussa trista boghe de lamentu

chi t'hat a narrar : custo fit s'affettu,

custu fit su solenne jurasnentu?

Inoghe non ti firmas, lestra passas,

e a' custa trista rughe non t'abbassas.

5.

Cando passas inoghe pass'umìle ;

t'imponzat custa pedra su rispettu,

ca so mortu pro te anima vile,

privu de isperanz' e de affettu.

Dae custa fritta losa unu gentile

fiore sega e ponedil' in pettu,

pro 'ammentes comente t'happ'amadu,

già chi tue ti l'has ismentigadu.

Franciscu Carlini

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Franciscu Carlini ha recentemente pubblicato per Edes (Editrice democratica sarda) una nuova silloge poetica:SA TERRA PROMITTIA. Funge da introduzione questa mia Intervista all'Autore.

INTERVISTA CON L’AUTORE

a cura di Francesco Casula

 

Franciscu Carlini ci spiega il come e il perché della sua passione letteraria per il bilinguismo ma anche il permanere

di una costante, la sua passione civile, che connota ora in modo mediato, altre volte esplicitamente, la sua produzione poetica con un pessimismo che caratterizza le sue ultime poesie, che non è assoluto, come sembrerebbe a tutta prima, ma frutto dell’amara costatazione della mancanza di referenti politico-culturali che caratterizza la nostra epoca.

Carlini ha esordito come poeta bilingue nell’88 conBiddaloca, (Paese Stolto), Edes,in cui bonariamente metteva alla berlina l’arroganza, la saccenteria, la stupidità umana, ricorrendo a uno stile spassoso e a moduli espressivi mutuati dalla tradizione popolare e dalla poesia sarda con filastrocche, ninne-nanne, fiabe. Con Murupintu a me pare che Carlini abbia continuato il “viaggio” intrapreso con Biddaloca, confermando una cifra espressiva intensa e un messaggio altamente civile, che poi prosegue con le opere successive in versi e in prosa, sia in lingua sarda sia in lingua italiana.

Ma ecco l’intervista fatta per Sardegna Oltre nel lontano 1992, che sarà integrata da quanto pensa oggi l’autore a distanza di tanto tempo.

 

D. Perché dopo l’esordio hai continuato a scrivere testi bilingui?

 

R. Scrivere poesie – ma non solo – è diventato una sorta di vizio che non mi ha mai abbandonato da quando, quattordicenne, me ne ritrovai tra le mani,  una scritta da me, che  riecheggiava in  qualche  modo, se  non  ricordo male, La chiesa di Polenta  del  Carducci. Una  volta  arrivato,  molto  tardi, purtroppo, alla prima  pubblicazione di una raccolta, non potevano mancarne altre.

In tanto tempo, uno come me, non poteva rimanere inerte, trascurando di coltivare il suo vizio. Una spiegazione, la mia, apparentemente di carattere personale, dunque, che non tiene conto dell’ultima parte della tua domanda.

Allora il perché di testi bilingui. Dovevo di punto in bianco scrivere in italiano, così, senza una giustificazione?

Non ho avuto motivi per cambiare: una volta trovata una strada ho deciso di percorrerla fino in fondo, non certo per il gusto di farmi dare del “separatista” da qualcuno in vena di facezie.

 

D. Murupintu è una continuazione ideale di Biddaloca?

 

R. Alcuni amici che stimo, dopo aver letto il manoscritto, hanno visto effettivamente in Murupintu una “continuazione” di Biddaloca e me ne hanno parlato con qualche preoccupazione. I temi, grosso modo, sono gli stessi, l’ambiente è lo stesso, immutato, mi pare, lo stile. Eppure c’è una differenza di non poco conto tra le due sillogi. InMurupintu il rapporto con la cultura popolare è più mediato, non è stato usato materiale di riporto, è più evidente l’elaborazione letteraria o, quanto meno, c’è stato da parte mia un maggiore impegno per una poesia d’autore che potesse vivere senza il supporto di modelli, che pure esistono, ma che sono meno scoperti, come in Biddaloca.

    

D. Perché scrivi? Per divertirti o per comunicare qualcosa?

     

R. Chi scrive non si diverte quasi mai, perché scrivere è lavoro, fatica che può dare soddisfazione solo quando credi di essere riuscito a mettere tutte le parole necessarie al posto giusto, ma escludo il puro e semplice divertimento, anche se, di primo acchito, a chi legge può sembrare il contrario. In ogni caso non mi  diverto a  parlare  di  stupidità o  di follia,  di  morti    di fame o di morti ammazzati,

dell’arroganza e della prepotenza del potere, della saccenteria dei piccoli e dei grandi intellettuali. Le filastrocche possono divertire i bambini non necessariamente l’autore.

Allora scrivo per comunicare qualcosa? Nessuno pubblica ignorando il destinatario. Chi afferma il contrario non sempre è in buona fede. Detto questo, però, devo aggiungere che, prima di tutto scrivo per me stesso, perché scrivendo  riesco  a concentrarmi  meglio  su  cose  che  mi

riguardano e che in larga misura riguardano anche altri.

 

D. Da quando e perché usi il sardo?

 

R. Il mio avvicinamento all’area neosardista nella seconda metà degli Anni Settanta mi riportò alla riscoperta della cultura, della lingua sarda e a un modo diverso di concepire e fare poesia.

Uso il sardo perché, essendo la mia prima lingua, lo sento più congeniale rispetto all’italiano che ho appreso a scuola a suon di scapaccioni, per effetto della derisione di cartelli infamanti appesi alla schiena, dei castighi dietro la lavagna e delle dolorosissime bacchettate sullemani.

È stata una scelta quasi necessaria più che politica o ideologica: riesco a esprimermi con più naturalezza, so trovare le parole e i modi di dire più adatti, quelli che mi permettono di comunicare meglio ciò che voglio (senza correre rischi eccessivi di fraintendimenti), di far risuonare echi in interlocutori lontani. E poi che cosa c’è di tanto strano che un sardo usi la sua lingua per fare poesia? Forse c’è qualcuno che abbia motivo di stupirsi se un francese scrive le sue poesie in francese?

 

D. Non è un surplus la traduzione a fronte?

 

R. Un surplus per chi? Forse per i sardi che sanno cogliere anche le più piccole sfumature di una parola, di una frase idiomatica. Non certo per un pubblico più vasto  che  posso raggiungere, data la mia condizione di poeta bilingue, con la traduzione a fronte. Solo un autolesionista o un invasato di estremismo infantile può pensare di precludersi la possibilità di un rapporto comunicativo ad ampio raggio. Questo modo di vedere le cose potrebbe sembrar dettato dall’ambizione di chi, per un verso o per l’altro, scrive un “diario in pubblico” e dal pubblico si attende una risposta, tanto più gratificante quanto maggiore è il numero delle persone che lo compongono. È anche questo, perché negarlo? Ma c’è dell’altro.

Come in economia, anche nella scrittura noi sardi subiamo un rapporto di scambio ineguale che vede gli altri armati del diritto di imporci un volume impressionante di prodotti senza che noi riusciamo a fermarne o limitarne la portata: ci troviamo davanti a un’autentica valanga di macigni e detriti di ogni genere contro cui non riusciamo a trovare un riparo.

Ebbene, la traduzione a fronte in italiano, o in qualsiasi altra lingua, è un tentativo di aprire canali di ritorno che diano il segno d’una volontà di un’inversione di tendenza che a parole, ma solo a parole, è sulla bocca di noi tutti.

 

D. Dì la verità: scrivi per il lettore medio o soprattutto per le scuole e per gli studenti?

 

R. Ti confesso che non ho chiaro il concetto di lettore medio. Medio in che cosa? Socialmente? Culturalmente? In questo caso il lettore medio è la copia esatta della media borghesia esposta a tutte le suggestioni dei condizionamenti pubblicitari dell’industria culturale.

Ma allora non posso scrivere pensando al lettore medio perché ho motivo di pensare che il lettore medio mi rifiuti non essendo la mia immagine costruita dai mezzi di comu-nicazione di massa, ed io non posso tentare una comunicazione con chi me la nega a priori. Non è per un caso che volumi come BiddalocaMurupintu,trovino lettori socialmente agli antipodi: da una parte persone umili che si riconoscono nei  valori  culturali  ed  etici  che quelli esprimono e dall’altra intellettuali che hanno gli strumenti per una lettura critica di quanto scrivo.

Quanto alle scuole e agli studenti, se scrivessi per loro, la mia sarebbe una scelta politica consapevole e farei della poesia uno strumento per l’affermazione di progetti e ideali propri di chi si batte per la difesa di un’etnia minacciata di estinzione.

     È così? In parte è così, anche perché parecchie poesie diBiddaloca sono nate all’interno di una scuola media di villaggio per superare le difficoltà di trovare un repertorio poetico in lingua sarda adeguato all’ambiente dei ragazzi.

Le filastrocche, gli scioglilingua difficilmente possono essere apprezzati da adulti che non siano insegnanti. In questo senso fornisco materiale utile anche a loro. Le raccolte, però, contengono anche altro, utilizzabile sì dalla scuola, ma non solo dalla scuola: è un “altro” che ci riguarda tutti.

E poi, diciamolo chiaramente: una poesia, quando è riuscita, ha un ampio spettro di possibilità che vanifica ogni tentativo di diversificare aprioristicamente i settori di fruizione. Allora potrebbe anche accadere che persino il “lettore medio” possa apprezzare certe mie poesie quando s’imbatta accidentalmente in esse.

 

D. A questo punto finisce l’intervista del 1992. È cambiato qualcosa rispetto a questa intervista di circa vent’anni fa?

 

R. Tutto. È cambiato tutto. Siamo cambiati noi perché è cambiato il mondo. Con il muro di Berlino sono crollate le ideologie contrapposte che hanno caratterizzato un lungo periodo del secondo dopoguerra. La globalizzazione, poi, con il definitivo trionfo delle multinazionali delle finanze e delle merci, e un altro crollo, quelle delle torri gemelle. E prima ancora Internet; inoltre il lessico che esprimeva i rapporti di classe: i padroni non sono più padroni ma datori di lavoro senza che per questo i lavoratori siano diventati datori di profitto.

 

D. Capisco, molta acqua è passata sotto i ponti. E intanto tu

hai pubblicato altre sillogi poetiche come Sa luna Inciusta, ben quattro raccolte di poesie in italiano, favole moderne in versi e in prosa (Marxani Ghiani e altras Fàulas).Quest’opera segna in modo evidente una rottura con il passato. È così?

 

R. Il periodo delle speranze nonostante tutto, della possibilità della giocosa irrisione di tutto e di tutti, è tramontato. Ne ho preso atto e ne ho tratto le conclusioni. Ho cominciato a guardare il mondo per quello che è (per come io lo vedo), e da qui la rottura con il mio consolidato modo di far poesia. L’altro volume è Dialogo a una voce, del 2007, due anni dopo Marxani Ghiani. Se in questo ultimo qualcuno ha visto, non senza una ragione, “un mondo cupo, guardato con pessimismo impietoso e corrucciato” (Vindice Ribichesu), nell’altro sono arrivato alla conclusione di uno smarrimento pressoché totale che è quello della generazione cui appartengo, e non solo.   

 

D. Su questo ritorneremo più avanti. Per adesso soffermiamoci sulle tue opere in prosa. Hai scritto una raccolta bilingue di racconti, S’Òmini chi bendìat su tempus e un romanzo, solo in sardo, Basilisa, che ha vinto il Premio Grazia Deledda 2002. Pone problemi per un poeta il passaggio a una scrittura in prosa?

 

R. È pacifico che insorgano problemi per chi ha scritto per lungo tempo in versi.  Meglio, per me è accaduto di averne, e si capisce. La poesia è sintesi, è un togliere continuo per dire più cose possibili con il minor numero di parole, con un’attenta sorveglianza perché una sola parola non rompa l’equilibrio faticosamente raggiunto.

 Molte volte mi è accaduto di sentir dire che la mia prosa non è lussureggiante, che è asciutta, icastica. Anche tu, mi pare, ne hai scritto. Può darsi che le cose stiano in questi termini, e allora viene da pensare che all’origine  ci  sia  la mia lunga frequentazione della poesia. È qualcosa che accade spesso nel  passaggio  dall’esperienza  poetica  a  quella  in  prosa.

Dico di più, le eccezioni sono talmente rare che si possono contare sulle dita di una mano. Si vada a esaminare la prosa di Francesco Masala. L’origine poetica del suo autore balza evidente a chi si avvicini per la prima volta a Quelli dalle labbra bianche. Questo in origine era un romanzo di parecchie centinaia di pagine. Se Masala l’ha ridotto a un romanzo breve, o a un racconto lungo, vedi un po’ tu, significa che il poeta non poteva sentirsi tranquillo in un oceano di parole in cui rischiava di rimanere sommerso. E, in preda allo smarrimento, ha tagliato, ridotto, sintetizzato, fino a quando non si è sentito al sicuro, nella consapevolezza di un dominio totale sul contenuto della sua terribile esperienza in Russia e, più ancora, fino a quando non è riuscito a dipingere un quadro-metafora di un’umanità contadina vinta, umiliata, mandata allo sbaraglio. 

 

D. Come mai, dopo anni in cui sembrava, almeno per la tua produzione in versi, che ti fossi rifugiato in un genere di poesia che aveva la sua forza nella forma, molto innovativa nel panorama della letteratura in lingua sarda, ma non solo, ora pubblichi questo libro in cui s’impongono in modo dominante, (prepotente, oserei dire), tematiche squisitamente sociali?

 

R. Ripeto, questo libro non nasce dal nulla, ha i due antefatti di cui ho appena parlato. Ma davvero ho abbandonato una letteratura che in altri tempi si definiva impegnata? Tu stesso hai parlato di “messaggio altamente civile” come connotazione della mia produzione poetica degli anni passati. D’altra parte hai sicuramente notato che in questa silloge sono presenti poesie provenienti da BiddalocaMurupintu e dalla stessaLuna inciusta. Altre, precedenti queste  tre  antologie,  e  altre ancora  posteriori, rivelano una continuità di impegno che rimanda a una mia visione del  mondo.  Nelle  ultime, pubblicate  in  riviste  o

inedite, il rimando è palese, il tono è duro, perché è dura la realtà che abbiamo tutti sotto gli occhi.

 

D. Un impegno dunque…

 

R. … un impegno del dire senza un supporto politico o la presunzione di messaggi da lanciare.

 

D. Ed è anche una polemica amara.

 

R. Poteva essere diversamente? Marxani Ghiani avvertiva me, come qualcuno dei miei pochi lettori, che la temperie culturale era mutata, e la fiducia nella ragione, quella politica innanzi tutto, era venuta meno. Indursi all’ottimismo della volontà è un esercizio duro, e per molti una comoda scappatoia, che mette in crisi il titanismo gramsciano.

Tu da qualche parte hai scritto che mi ero incattivito. È così. Un tempo c’era la percezione di echi lontani, spesso filtrati dall’ideologia dominante o da quella alternativa al sistema. Oggi conosciamo del mondo molte cose. I mezzi di comunicazione di massa, soprattutto Internet, ma gli stessi telegiornali, di sfacciata ispirazione governativa o addirittura del padrone del vapore e quelli che in qualche modo si rifanno all’opposizione, ci sbattono davanti agli occhi cose che vorremmo pensare inesistenti, frutto di un giornalismo grottesco. Le guerre, poi, le viviamo in presa diretta, come i massacri in varie parti del mondo e altre cose che ci fanno inorridire. Almeno a me accade di inorridire. E di gridare il mio sdegno come avessi davanti, in carne e ossa, il responsabile di tante nefandezze.

 E poi una volta c’era l’ideologia “buona” che innervava le nostre scelte e ci garantiva le condizioni per schierarci senza riserva, o quasi. Adesso, invece? Cambiare si può, cambiare si  deve,  si  continua  a   ripetere, e  tutto  rimane fermo. Hai una bussola che ti guidi come 20-25 anni fa? Io se ce l’ho, deve essere andata a finire in qualche angolo buio di un ripostiglio con  l’ago  impazzito, e  non  mi  fido.

Non ho fiducia nelle parole, e i fatti sono ben miseri, se scopri senza molto affanno i rimandi a interessi particolari, personali o di classe (ahi la parolaccia!), nazionali o sovrannazionali.

 

D. Eppure continui a scrivere… Non sarà che sei d’accordo

con il grande poeta italiano Franco Fortini secondo cui  La poesia non cambia nulla. Nulla è certo, Ma tu scrivi. Ovvero che la poesia – la scrittura in genere – è uno stru-mento necessario e utile proprio per la sua inutilità: uno spazio di libertà che consente di immaginare mondi diversi da quello insoddisfacente, quotidiano, ingiusto e massificato in cui si vive.

 

R. Già, continuo a scrivere, anche se so che le parole, tanto meno quelle del poeta, non possono cambiare il mondo. E sarebbe il meno, se ci fossero quelle di intellettuali e di politici capaci di disegnare una prospettiva appena credibile. Continuo a scrivere senza illusioni per dire quanto vedono i miei occhi, quanto odono le mie orecchie. Dire, non denunciare. Denunciare a chi, poi? Tutti sanno, ormai, ed è invalsa l’assuefazione al peggio che non ha più limiti: quando credi di averne visto il fondo, ti accorgi che il peggio sprofonda ancora più sotto. Tu stai lì, poeta e non, stupito, esterrefatto, a dispetto dell’età che avrebbe dovuto renderti saggio, mettendoti al di sopra delle cose del mondo.

 

D. In questa situazione qual è il ruolo del poeta, se un suo ruolo esiste ancora?

 

R. Un ruolo del poeta esiste, ma è del tutto marginale, tanto più se vive in provincia e si ostini a scrivere in sardo. I lettori-interlocutori  sarebbero  comunque  pochi,  anche  se avessela possibilità di raggiungerne un numero maggiore oltre Tirreno. La poesia è diventata merce elitaria e sopravvive grazie alla scuola che la impone a bambini e ragazzi  i quali  la  subiscono,  colpa di   un   insegnamento

inadeguato. I veri poeti oggi sono i cantautori, quelli seguiti da centinaia di migliaia di giovani che conoscono a memoria i loro testi e la musica, li cantano insieme ai loro idoli in vasti campi sportivi e si muovono all’unisono al ritmo di note apprese dai CD. Si  è  detto e  ripetuto  che  la

poesia è un’arte da fruire in  solitudine, un modo  silenzioso

di ascoltare parole silenziose. Balle. Oggi è tutto il contrario. Le parole diventano messaggi da godere in sterminate compagnie, urlati, amplificati da potentissimi impianti stereofonici. Coinvolgono masse in cui i singoli si perdono. E se sono formalmente belli, magari poetici, colgono di solito nel segno, diventano un modo comune di sentire, andando a comporre le pagine di una pedagogia giovanile viva, a suo modo alternativa a quella scolastica.

 

D. Solo buio, dunque, per te e per chi come te continua a coltivare la poesia tradizionale?

 

R. Buio profondo, verrebbe da dire. E non solo per la poesia o per l’età con la mia vista malferma. Magari fossero i miei molti anni, con i loro inciampi quotidiani a condizionare le mie poche idee. Almeno conoscerei una causa per farmi una ragione di ciò che mi gira intorno.

 

D. Un’ultima curiosità. Come mai un titolo così promettente, dopo quanto hai appena detto?

 

R. La terra promessa era l’età dell’oro del futuro, quella che abbiamo immaginato fosse dietro l’angolo di una strada lunghissima. Ma non siamo riusciti a raggiungerla. La manna che pioveva dal cielo dell’ideologia e che ci aveva nutrito nel deserto di una realtà che volevamo attraversare a  tutti i costi è finita. La divinità ha esaurito le scorte. Li senti i balbettii di chi vorrebbe nutrirci con promesse di mirabolanti ma già annose convergenze al centro? Qui in Italia, per dire, abbiamo avuto ideologi del nulla, rivoluzionari da operetta. E ora ne paghiamo le conseguenze. Quella che era definita la sinistra radicale  non ha  neppure un rappresentante in parlamento, fatta fuori dal perbenismo del cosiddetto riformismo.

 

D. Ma non stavamo parlando di poesia?

 

R. A quanto pare no. Sempre che non si voglia tener conto

dei contenuti della produzione poetica degli ultimi anni.

 

D. Allora è inutile chiederti che cosa riserva per noi il tuo futuro.

 

R. A voi, ai pochi amici che ho, il mio futuro, non so quanto prossimo, riserva una sola cosa. E sai benissimo quale. Quanto al futuro di noi tutti, non ci riserva niente di nuovo, sarà (è) la perpetuazione del presente.

 

D. Nessuna speranza, proprio nessuna?

 

R. Se esiste, la speranza è un sentimento confuso, legato all’istinto di sopravvivenza. Molti hanno voluto sperare nel movimento Occupiamo Wall Street, in quello mondiale degliindignados, ma intorno a loro non si è coagulato un disegno politico alternativo al sistema dei vari paesi. Perché senza un progetto, sottratto ai professionisti della politica vista come esercizio a vita del potere, si può essere indignati quanto si vuole che non si va da nessuna parte. Così le loro sacrosante proteste sono scomparse finanche dalle pagine della cronaca politica. Si sono nutrite grandi speranze sulla primavera araba, e sappiamo come è andata a finire.

 

DE il passato?

 

R. Vuoi dire le idee politiche di una volta? Le mie non sono cambiate. Sono altri che hanno cambiato le loro, deludendo le aspettative di una massa sterminata di uomini.

Lingue povere e lingue ricche*

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“Le lingue sono strumenti di comunicazione. Come ogni strumento possono essere usate bene oppure male. Ciò dipende dal grado di conoscenza che iparlanti, o scriventi, hanno della lingua; ma dipende anche dalla loro cultura e dalla loro fantasia, ovvero da quella capacità individuale di comunicare ef­ficacemente ogni cognizione e ogni pensiero, che i grammatici chiamano arte del dire (ars dicendi dei latini,rhetorica dei greci). La quale arte del dire è stata anche codificata in tutti i tempi, dai greci fino a noi, ma in realtà non si può codificare, perché la fantasia non conosce limiti néregole.

bastas, che razza di noioso discorso è questo? Sì, avete proprio ragione; me ne rendo conto dal fatto che mi sto annoiando anch'io.

Volevo parlare di lingue "ricche" e di lingue "povere", e soprattutto del­la lingua sarda – un tema piuttosto attuale e appassionante – ma è chiaro che non sono riuscito a comunicare il mio pensiero.

Ci riprovo saltando qualche passaggio che l'intelligente lettore saprà col­mare da sé. Ecco, si afferma polemicamente che la lingua sarda è una lingua povera, e si sottintende, in un confronto immediato, che la lingua italiana è ricca.

Davanti a questi giudizi mi domando con quale criterio possa venire ac­certata la ricchezza o la povertà di una lingua; mi domando se, per esempio, sia accettabile un metodo aritmetico come contare le parole del suo vocabolario. Se un tale metro fosse buono sarebbe possibile stabilire persino l'esatto rap­porto, o differenza, di ricchezza - povertà fra due lingue, così come si può stabilire il rapporto, supponiamo, fra due greggi di pecore e fra due conti in banca. Pertanto, sulla base del numero delle parole, sipotrebbe dire (e qui invento i dati) che la lingua italiana, rispetto alla lingua sarda, è il 35 per cento più ricca (o il 50, o il 70 per cento).

Senonché, a parte il fatto che non è stato ancora convenuto quante pa­role siano necessarie a una lingua perché si possa definirla ricca, a me pare di dover respingere il metodo aritmetico di valutazione.

Nessun dizionario infatti, per sterminato che sia, può considerarsi una lingua. Il vocabolario della lingua italiana non è la lingua italiana; il voca­bolario della lingua sarda non è la lingua sarda. Che altro è dunque una lin­gua? Forse la grammatica, la stilistica? No, neppure i migliori trattati di grammatica e di stilistica sono una lingua.

A voler tentare una temeraria definizione – necessariamente incompleta e provvisoria – direi che una lingua è la cultura stessa del popolo che la parla (e la scrive, se la scrive). Per questa ragione a me pare che, in assoluto non vi siano e non possano esservi lingue povere né lingue ricche, ma soltanto lingue in quanto sufficienti e in grado di esprimere tutta la cultura di cui sono appunto l'espressione. Un contadino bolotanese capace di comunicare le proprie cognizioni relative all'agricoltura, capace di esprimere le sue sensazioni di stanchezza, di scoramento, di preoccupazione, di gioia, di soddisfazione, di orgoglio, come pure le sue riflessioni sui rapporti col mondo che lo circonda, la sua filosofia politica esociale; ricchezza e povertà, oppressione e libertà, giusto e ingiusto, amore e odio, e via via il vasto bagaglio della sua cultura bolotanese, parlerà certo una lingua sufficiente, ma se è fornito di intelligenza e di fantasia parlerà forse una ricchissima lingua bolotanese, molto più ricca di quella italiana che si legge nel cinquecentesco poema L'Italia liberata dai Goti, il cui autore era colto e intelligente ma aveva scarsa fantasia.

Si potrà obiettare che il mio fantasioso contadino non è in grado di par­lare di sant’ Agostino nédi Dante né di psicanalisi, né di processi chimici nédi missilistica; è vero, ma su questi temi non avrebbe potuto aprir bocca neppure Marco Tullio Cicerone, un oratore senza dubbio intelligente e fantasioso.

Del resto, se andiamo a verificare come se la cavano, in lingua italiana, i cittadini italiani del nostro tempo, scopriremo che la maggior parte di essi, intorno ai temi sopraenunciati, o non sono in grado di parlare o diranno un mucchio di sciocchezze.

Si potrà ancora obiettare che il nostro bravo contadino, nel caso in cui seguisse un regolare corso di studi in Italia fino a conseguire il titolo di dot­tore e venisse a conoscenza di sant’ Agostino, di Dante, della psicanalisi, eccetera, volendone parlare abbandonerebbe la lingua sarda e si esprimerebbe in italia­no, così come fanno tutti gli intellettuali sardi che pur conoscono la lingua sarda.

Benissimo, qui vi aspettavo per potervi concedere che anche questo è vero, ma soltanto perchélo avrete obbligato a seguire il regolare corso di studi in lingua italiana con rigorosa esclusione della lingua sarda.

La questione della povertà, o insufficienza, del sardo come lingua colta (o dotta) è tutta qui. Se la storia avesse marciato in direzione opposta, se nel quinto secolo avanti Cristo i Greci – poeti epici, poeti lirici, poeti tragici, oratori, storici, matematici, filosofi, astronomi, navigatori, architetti, pittori, scultori e via dicendo – avessero conquistato Roma ancora tutta contadina o pressappoco, e le avessero imposto la lingua greca col dileggio continuato del latino e a forza di colpi di bacchetta sulle mani degli scolaretti, la grande lingua di Cicerone e di Virgilio sarebbe rimasta dentro le capanne dei pastori laziali. Seneca e Plinio avrebbero scritto in greco, e cosìpure Agostino e Tomaso, Lattanzio e Tertulliano, come ancora tutti i papi; el'italiano, lo spa­gnolo, il francese dei giorni nostri non sarebbero lingue neolatine bensì neo­greche o,chissà, neocartaginesi.

Dunque. Vogliamo restituire al Sardo la libertà e la dignità di lingua, anche illustre, che ebbe nel medioevo e fino al giudicato di Eleonora; consen­tiamole di colmare come può alcuni secoli di esclusione (un vero bando) dal processo culturale europeo e concediamole di partecipare – come l'italiano – ­al cammino della cultura che suole autodefinirsi "grande" e "alta" (ma chis­sà!), e vedrete che il Sardo non sarà soltanto la lingua umiliata dei contadini e dei pastori.

Per finire, ai Quaderni Bolotanesi vorrei consigliare di indire un concorso istruttivo e divertente, magari nel quadro delle annuali celebrazioni di Santu Bachis, un concorso che potrebbe dimostrare la ricchezza o la povertà delle lingue, non tanto in relazione al numero delle parole quanto in relazione alla fantasia espressiva dei concorrenti.

Si tratta di concorrere alla elaborazione di un breve componimento, in italiano e in sardo, che non superi le 150 battute dattiloscritte. Salvo il libero uso di articoli, preposizioni, congiunzioni, eccetera e la libera declinazione – o flessione – delle parole date, il dizionario a disposizione è il medesimo per l'una e per l'altra lingua:

 

ITALIANO                  SARDO

ragazzo                         piseddu

essere                            essere

cadere                           rùere

mano                             manu

Gesù                             Zesu

Avere                            àere

testa (nuca)                   cuccuru

gettare                           bettare

terra                              terra

cavallo                          caddu 

vedere                           bìere

cosa                              cosa

Maria                            Maria

nero                                 nieddu

ficcare                             ficchire

 

Conosco già il risultato e ve lo dico. A parere della giuria, i due migliori componimenti, uno in italiano e uno in sardo, sarebbero questi:

ITALIANO Maria, vedendo che Gesù aveva la mano sulla nuca, per non cadere gettò un cavallo nero al ragazzo ma la cosa ficcava la testa nella terra (concorrente: Gimaro Lo Giusto, professore universitario di storia sacra, raccomandatissimo da influenti personaggi politici).

 

SARDO Dae caddu nd'est rutta sa pisedda a manu in terra e a cuccuru ficchidu, zesumaria ite ch'appo idu betto sa manu ... una cosa niedda .. '. (concorrente: Luca Cubeddu, sconosciuto alla Giuria).

 

Ora giudicate voi, gentili lettori, quale dei due componimenti sia più me­ritevole della benedizione di Santu Bachis!”.

[Michele Columbu, Lingue povere e lingue ricche, in Quaderni bolotanesi: appunti sulla storia, la geografia, le tradizioni, le arti, la lingua di Bolotana”, Vol. 4 Anno. 1978 , n. 4].

 

*Tratto da La Lingua sarda e l’insegnamento a scuoladi Francesco Casula, Alfa editrice, Quartu sant’Elena, 2010.

    Ora anche in Letteratura e civiltà della Sardegna di Francesco Casula,  vo II, Grafica del Parteolla Editore, Dolianova, 2011.

Scalepranu: Premiati i vincitori del Concorso "Poetendi e contendi".

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Quinto concorso di poesia, riconoscimenti per i vincitori

La Nuova Sardegna 20 agosto 2013 — pagina 21

ESCALAPLANO Sono stati premiati i vincitori del quinto concorso letterario “Escalaplano e la poesia. Poetendi e contendi Scalepranu in poesia” organizzato dal comune, con la collaborazione della biblioteca comunale e del sistema bibliotecario del Sarcidano. Tutte le opere presentate sono state raccolte in un volume che è stato stampato grazie al contributo della legge regionale sulla tutela e valorizzazione della lingua e della cultura sarda . «Il concorso si è rilevato un successo – sottolinea il sindaco Marco Lampis – la quantità ma soprattutto la qualità delle opere presentate non hanno niente da invidiare a quelle di altri premi di poesia sarda che hanno ben diversa tradizione, storia, risorse finanziarie e visibilità sui media». La giuria presieduta dal professor Francesco Casula ha assegnato il primo posto per la sezione poesia a “In su trelaxu” di Dante Erriu, originario di Silius. Per la sezione prosa ha vinto “Pantaleo e Perdulariu in su padente Pramattu” di Gonario Carta Brocca di Dorgali. Per la sezione poesia riservata agli studenti di Escalaplano ha vinto “Unu sonnu girendi” di Alessandro Aresu e Nicola Usala. Per la sezione prosa “Is biddas” di Andrea Prasciolu.(j.b.)

Scalepranu: Premiati i vincitori della Quinta edizione del Concorso "Poetendi e contendi"o

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Quinto concorso di poesia, riconoscimenti per i vincitori

La Nuova Sardegna 20 agosto 2013 — pagina 21

ESCALAPLANO Sono stati premiati i vincitori del quinto concorso letterario “Escalaplano e la poesia. Poetendi e contendi Scalepranu in poesia” organizzato dal comune, con la collaborazione della biblioteca comunale e del sistema bibliotecario del Sarcidano. Tutte le opere presentate sono state raccolte in un volume che è stato stampato grazie al contributo della legge regionale sulla tutela e valorizzazione della lingua e della cultura sarda . «Il concorso si è rilevato un successo – sottolinea il sindaco Marco Lampis – la quantità ma soprattutto la qualità delle opere presentate non hanno niente da invidiare a quelle di altri premi di poesia sarda che hanno ben diversa tradizione, storia, risorse finanziarie e visibilità sui media». La giuria presieduta dal professor Francesco Casula ha assegnato il primo posto per la sezione poesia a “In su trelaxu” di Dante Erriu, originario di Silius. Per la sezione prosa ha vinto “Pantaleo e Perdulariu in su padente Pramattu” di Gonario Carta Brocca di Dorgali. Per la sezione poesia riservata agli studenti di Escalaplano ha vinto “Unu sonnu girendi” di Alessandro Aresu e Nicola Usala. Per la sezione prosa “Is biddas” di Andrea Prasciolu.(j.b.)


CUADDEDDU CUADDEDDU di Benvenuto Lobina BENVENUTO LOBINA.

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Il poeta e il romanziere bilingue che ha nobilitato la lingua sarda.(1914-1993)

CUADDEDDU, CUADDEDDU

Nebodeddu cantatori,

nebodeddu meda abbistu,

ti ddu paghit Gesu Cristu,

in salludi e in liori

po mi dd’ai spiegau,

nebodeddu car’’nonnu,

poita, apust’ ’e custu sonnu

chi xent’annus è durau,

iscidau mindad custu

malladittu fragu mallu

chi si furriat su callu

in gennarxu e in austu.

I atras cosas a muntonis,

nebodeddu, m’as cantau

chi su coru m’ant’unfrau

su xrobeddu e is callonis.

E immoi lassamì stai

no mi neristi pru’ nudda

ma asta a biri ca ’n sa udda

ci ddus appa a fai entrai.

I mi bastat su chi sciu,

ma una cosa ti dimandu

donamidda e i minn’andu

bollu su cuaddu miu.

Cuaddeddu, cuaddeddu,

curri senz’ ’e ti firmai

ca depeus arrivai

in tres oras a Casteddu.

A Casteddu ad pinnigau

gent’ ’i onnia manera:

sa pillandra furistera

su furoni, s’abogau.

Pinnigau ad gent’ ’e trassas

spilligambas e dottoris,

deputaus traittoris,

munzennoris e bagassas.

I a tottu custa genti

dd’anti posta a comandai

e po paga ant’a pigai

s’arretrangh’ ’e su molenti.

Frimadì: Santu Francau,

cuaddeddu, si bid giai.

Su chi seu andendi a fai

non ti dd’appu ancora nau..

Scurta: a fai un’abisitta

a is chi anti fattu troga

seu annundu cun sa soga

e i sa leppa in sa berritta.

Su chi primu appa a cassai

cun sa bella cambarada,

cuaddeddu, è su chi nada

ca ad donau a traballai

a su popullu famiu

in Sarroccu e in Portuturri

e chi si pònidi a curri

faid mort’’e pibizziu.

Poita ad crup’ ’e cuddu fragu

chi mind’ ad fattu scidai

prima dd’appu a istrumpai

e apustisi ddu cagu.

Sigomenti anch’è parenti

de i cuddu imbrollioni

chi ad redusiu a carboni

sa foresta e i su padenti,

ci ddu portu a unu logu

pren’ ’e spina, sperrumau

i ddu lassu accappiau

i agoa ddi pongiu fogu.

No a biu, cuaddeddu,

cantu montis abruxaus,

cantu spina in is cungiaus

a infora de Casteddu?

Anti venas i arrius

alluau tottu impari

alluau anti su mari

e is tanas e is nius.

Bidda’ mes’abbandonadas

a i’ beccius mesu bius

a su prant’ ’e is pippius

a pobiddas annugiadas.

Oh, sa mellu gioventudi

sprazzinada in mesi mundu

scarescendu ballu tundu

scarescendu su chi fudi.

Cuaddeddu, sigomenti

de su dannu chi eu’ biu

e di aturus chi sciu

tenid curpa meda genti,

a accantu si pinniganta

i mi bollu accostai

e i ddus appa a ispettai

asta a biri chi no triganta.

Ddusu bisi: allepuccius

a ingiri’ ’e sa mesa

faccis prena’ de malesa

omineddus abramius.

Ma appenas a bessiri

nd’ant ’e s’enna ’e s’apposentu

donniunu ad essi tentu

e tandu eus a arriri.

O su meri chi scurtai

su chi nada unu cuaddu

oi ollidi – e chi faddu

gei m’ada a perdonai –

i ddi nau ca cussa genti

pinnigada in su corrazzu

non cumanda d’unu cazzu

funti conca’ de mollenti.

Chi cumandada est’attesu

custus funti srebidoris

mancai sianta dottoris

funti genti senz’ ’e pesu.

Fueddendu in cudda cosa

no adi intendiu fustei

nendu “yes” e nendu “okei”

cun sa oxi pibiosa?

Bruttu strunzu, arrogh’ ’e merda,

cussa conca in d’unu saccu

illuegu ticci zaccu

ti dda scudu a una perda.

De is cosa de sa genti,

o cuaddu manniosu,

maccu, zoppu i arrungiosu

no as cumprendiu niente.

No as cumprendiu, po nai,

chi su bruttu fragu mallu

chi ddis furriad su callu

ndiddus podisi scidai?

E a candu tottu impari,

meris, predis, srebidoris,

ciacciarronis, traittoris,

ci ddus anta a iscudi a mari?

Su srobeddu dd’asi in brenti

Tprrù, cuaddu, tprrù, mollenti.

Gli Istituti solidaristici e comunitari dei Sardi:SA PARADURA.

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L’Istituto de sa Paradura e dintorni.

di Francesco Casula

Condivido totalmente l’eccellente articolo di Tonino Bussu (apparso su La Barbagia.Net del 19 agosto scorso e che riporto sotto alla fine di questo mio intervento) sugli Istituti solidaristici che hanno caratterizzato la storia e la civiltà sarda e, che ancora oggi, sia pure in forme diverse, continuano a vivere e operare: come ha documentato Tonino Bussu nell’articolo. E anch’io auspico che la Regione sarda si muova “nella direzione di recuperare questi istituti comunitari che hanno una grande e immediata efficacia, purché liberati dalle pastoie della burocrazia”.

Partendo da tali Istituti vorrei tentare una breve incursione storica – che attiene strettamente ai valori dei Sardi –  per liquidare intanto il becero luogo comune suiSardi pocos, locos y mal unidos. Attribuito a Carlo V, ma mai verificato in alcun documento o altra fonte storica.

Del resto l’imperatore poco doveva conoscere la Sardegna se non dai dispacci “interessati” dei vice re: solo due volte la visitò direttamente. Nel 1535 quando durante la spedizione contro Tunisi e i Barbareschi sbarcò a Cagliari trattenendosi alcune ore e nell’ottobre del 1541, nella seconda spedizione, questa volta contro Algeri, il più attivo nido dei Barbareschi. In questo caso la flotta imperiale sostò in Sardegna: ma non – come ebbe a sostenere Carlo V – per visitare Alghero, dove passò la notte del 7, bensì per esserne abbondantemente approvvigionato, a spese della popolazione della città catalana e dell’intero sassarese.

 Ma tant’è: tale luogo comune – a prescindere da Carlo V – è stato interiorizzato da molti sardi, con effetti devastanti, specie a livello psicologico e culturale  (vergogna di sé, complessi di inferiorità, poca autostima) ma con riverberi in plurime dimensioni: tra cui quella socio-economica.

I Sardi certo sono pocos,: e questo di per sé non è necessariamente un fattore negativo. Ma non locos: ovvero stolti, stolidi e men che meno imbecilli.

Certo le esuberanti creatività e ingegnosità popolari dei Sardi furono represse e strangolate dal genocidio e dal dominio romano. Ma la Sardegna, a dispetto degli otto trionfi celebrati dai consoli romani, fu una delle ultime aree mediterranee a subire la pax romana, afferma lo storico Meloni. E non fu annientata. La resistenza continuò. I Sardi riuscirono a rigenerarsi, oltrepassando le sconfitte e ridiventando indipendenti con i quattro Giudicati: sos rennos sardos (i regni sardi). 

Certo con catalani, spagnoli e piemontesi furono di nuovo dominati e repressi: ma dopo secoli di rassegnazione, a fine Settecento furono di nuovo capaci ai alzare la schiena e di ribellarsi dando vita a quella rivoluzione antifeudale, popolare e nazionale che porrà la base della Sardegna moderna.

Certo, si è tentato in ogni modo di scardinare e annientare lo spirito comunitario, la solidarietà popolare, quella pluralità di reti sociali e di relazione che avevano caratterizzato da sempre le Comunità sarde con variegati sistemi e costumi solidaristici e di forte unità: basti pensare a s’ajudu torrau a sa paradura: costumanza che colpirà persino un viaggiatore e visitatore come La Marmora che [in Viaggio in Sardegna di Alberto Della Marmora, Gianni Trois editore, Cagliari 1955, Prima Parte, Libro primo, capitolo VII., pagine 207-209] scriverà:”Fra le usanze dei campagnuoli della Sardegna, alcune sono de­gne di nota e sembrano risalire all'antichità più remota : citeremo le seguenti.

Ponidura o paradura. –  Quando un pastore ha subito qualche perdita e vuol rifare il suo gregge, l'usanza gli dà facoltà di fare quel che si dice la ponidura o paradura. Egli compie nel suo villag­gio, e magari in quelli vicini, una vera questua. Ogni pastore gli dà almeno una bestia giovane, in modo che il danneggiato mette subito insieme un gregge d'un certo valore, senza contrarre alcun obbligo, all'infuori di quello di rendere lo stesso servizio a chi poi lo reclamasse da lui…”

 

La solidarietà senza burocrazia

di Tonino Bussu

Qualche anno fa, in occasione del terremoto in Abruzzo, ha creato simpatie e onsensi l’iniziativa de sa paradura di Gigi Sanna, cantante del gruppo de sos Istentales, ma  nche attivo imprenditore agricolo di una fattoria didattica in quel di Baddemanna a Nuoro.

Già il nome Istentales, la grande e meravigliosa costellazione autunnale di Orione, rievoca antichi miti greci, ma anche tradizioni pastorali sarde in quanto questa costellazione, chiamata Sos Bacheddos in Barbagia, era l’orologio notturno estivo per i pastori barbaricini e, quando si presentava sulla volta celeste, preceduta da su Gurdone, le Pleiadi, avvertiva che era il momento di riportare il gregge all’ovile dopo il pascolo notturno de su chenadorzu o murigargiu o su tzucare, come dicono nell'oristanese.Quindi Orione, sos Baccheddos, sos Istentales, diventano oggi con Gigi Sanna il simbolo dell’antica solidarietà pastorale senza burocrazia che in poco tempo riescono a creare, a parare un gregge per donarlo ai fratelli pastori abruzzesi colpiti dal terremoto.Di altrettanta simpatia e stima si è circondato questi giorni Fortunato Ladu, pastore impegnato con grande energia e passione nelle lotte per il riscatto di questa categoria che rimane, oggi più di ieri, alla base della nostra economia e cultura millenarie. E la stima e simpatia per Fortunato Ladu deriva dalla sua iniziativa di esprimere e incoraggiare una solidarietà concreta, efficace e veloce, con l'invio di varie balle di fieno per i pastori del Sarcidano funestati dal fuoco assassino e crudele dei giorni scorsi che ha distrutto pascoli, greggi e messo a repentaglio la vita stessa delle persone.Ebbene, la lodevole iniziativa di Fortunato Ladu, seguita dalla generosità di altri suoi colleghi di varie zone della Sardegna, si inserisce nel solco di quelle forme di solidarietà comunitaria in vigore nella società pastorale fino agli anni sessanta, che affonda le sue radici nei secoli passati quando in casi di estrema necessità personale non vi erano aiuti pubblici e si rischiava la fame e la miseria.Numerosi sono i racconti di tropas de pastores, gruppi di pastori, che si prendono l’impegno di andare da un ovile ad un altro e chiedere una , due o più pecore, a seconda dei casi, per ricostruire il gregge del Tal dei Tali perché o gli era stato distrutto da una calamità naturale, o gli era stato rubato o perchè, dopo vari anni di prigione, non aveva più nulla e quindi era opportuno metterlo nelle condizioni di riprendere a lavorare.Ecco quindi i termini in lingua sarda per indicare questa antica pratica di sa ponidura, come dice spesso Gonario Pinna, noto penalista nuorese, nella sua opera ‘Il pastore sardo e la Giustizia’da pònnere, mettere a disposizione una pecora o altro capo di bestiame.L’altro termine è sa paradurada parare cioè formare, creare, parare pacos pecos de bestiàmene,formare un piccolo gregge di pecore o di armenti o maiali ecc.Si dice anche su paru, per indicare un genere, una specie di bestie, su paru de sa berbeghe, ma in certi casi, soprattutto quando si intende condannare l’azione riprovevole di una persona, si dice anche su paru ‘e su tontu o de s’isterzare! Comuni sono espressioni come: e ite li cheries fàchere a su par’e su maccu! E per indicare il massimo del disprezzo nei confronti di una persona o di una bestia invece che paru su dice parìle, o parìle malu!Quindi sa paradura da parare. Mi raccontava un pastore barbaricino in quel di Bosa che negli Anni Sessanta aveva donato almeno dieci pecore per aiutare un amico a ricrearsi il gregge, mentre per un altro pastore del Montiferru avevano lo stesso fatto sas berbeghes de dimanda.Nei primi Anni Venti del secolo scorso una delle tante violenti calamità naturali aveva tra l’altro incenerito il gregge di un pastore di Ollolai, certo Giovanni Lostia mi sembra, e allora, anche su indicazione del Consiglio Comunale, come risulta da una delibera del tempo, i pastori ollolaesi hanno portato nel suo ovile ognuno una pecora viva e in cambio si sono presi una pecora morta e nel giro di qualche giorno gli hanno ricostruito il gregge, l’ant torrau a parare sa gama, sa roba, salvandolo dalla disperazione più nera.Istituti come sa ponidura o paradura o berbeghes de dimanda dovrebbero essere contemplati negli statuti comunali perché sono una pratica che permette di esprimere la solidarietà viva, diretta e soprattutto veloce, senza perdersi in lungaggini burocratiche.Abbiamo tentato negli anni scorsi di mettere in qualche statuto comunale tracce, arrastosdelle nostre migliori tradizioni comunitarie come la figura de s’omin’e mesu o appunto de sa paradura, ma la modernità e la legislazione statale non lascia spazio a scelte coraggiose e identitarie di questo tipo che, per alcuni che predicano la superficiale sardità da cartolina, è solo vecchiume.Per fortuna invece tali istituti sopravvivono nelle iniziative di persone e gruppi che infischiandosene delle leggi e considerate le lungaggini previste da queste ultime, danno risposte, come in questo caso, che sostituiscono gli interventi statali o regionali che spesso o non arrivano o arrivano in ritardo, perché sono tanto precise nella loro stesura quanto farraginose nella loro applicazione. Sarebbe opportuno che la Regione si muovesse nella direzione di recuperare questi istituti comunitari che hanno una grande e immediata efficacia, purché liberati dalle pastoie della burocrazia.

PEDRU MURA E LE SUE "RIMAS NOBAS"

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PEDRU MURA*

Il Garcia Lorca sardo (Isili 1901-Nuoro 1966)

Pedru Mura  nasce il 23 Febbraio 1901 a Isili (Ca), “cittadina ridente del vecchio e sonante Sarcidano, che si affaccia come una fanciulla alle floride pianure del Campidano”, scriverà il poeta stesso in una sua nota autobiografica. In cui ci informa anche che suo padre faceva l’artigiano: costruiva e vendeva caldaie di rame. Frequenta di mala voglia la scuola elementare, fino alla quarta classe, poi segue i fratelli nel lavoro di suo padre. Ben presto si pentirà per non aver proseguito le scuole elementari e gli nacque subito –è sempre il poeta stesso a rivelarcelo- la passione alla lettura della poesia, tanto che in poco tempo imparò a memoria la Divina Commedia e La Gerusalemme Liberata, unici testi, insieme a L’Orlando Furioso, che aveva a disposizione nella sua casa di Isili.

Fin da giovanissimo inizia a poetare: ecco come lo ricorda lui stesso ”Una domenica sera vidi amici e altri giovani ascoltando una gara poetica che si svolgeva dentro una bettola. Entrai anch’io e cantai un’ottava: Avevo tredici o quattordici anni: scoppiarono tutti in un fortissimo applauso, tanto che mi tentarono a cantare ancora. Da quel giorno mi esibivo ogni tanto specialmente in occasioni di feste”. Costituirà il suo noviziato poetico: a 18 anni comincerà a scrivere le sue prime poesie in rima com’era l’uso di quei primi anni del Novecento.

Finita la guerra, nel 1925 si trasferisce a Nuoro dove si sposerà e aprirà una bottega di articoli di rame, che vendeva nei paesi vicini, avendo così l’occasione di conoscere le condizioni della Barbagia di allora. In seguito all’esperienza dell’acquisto, nel 1936, di una cartoleria-libreria, rivelatasi fallimentare, partì in Africa orientale come volontario e vi rimase per tre anni, fino al 1939. E’ in questo periodo che scrisse varie liriche. Ritornato a Nuoro frequenta uomini di cultura e poeti del calibro di Gonario Pinna, Raffaello Marchi, Gavino Pau. Intanto, soprattutto negli anni Cinquanta-Sessanta la sua biblioteca si era arricchita con numerosi autori latini,sardi ,italiani e stranieri.

Nel 1955 concepì un progetto di pubblicazione delle sue poesie in sardo-nuorese e ne predispose la copertina e il comunicato: ”Con questo fascicolo ha inizio la pubblicazione delle mie poesie. Cento operette diverse che presento al popolo sardo amante della poesia dialettale, convinto che saprà vagliarle con lo stesso spirito con cui amo la Sardegna”. E prosegue: “Sono versi scaturiti dal pianto di centinaia di famiglie sarde (de cussas chi non tenent santos in corte) tra le quali ho passato molti giorni della mia vita dividendo con esse gioie e dolori. In questa modesta opera, ho tentato di esprimere aspirazioni e speranze del nostro popolo abbandonato da secoli. Chiedo scusa a certi lettori se dai miei versi non emana profumo (de sa petta arrustia) e chiedo scusa a tutti se non ho fatto meglio come forse avrei potuto se le circostanze della vita non mi avessero inchiodato col mio martello all’incudine sulla quale per molti anni cercai l’aurora riuscendo solo a scalfirle un fosso”.

“Il progetto –scrive autorevolmente Nicola Tanda, il massimo studioso e conoscitore di Pedru Mura e della sua poesia- documenta abbastanza il livello di consapevolezza e di maturazione degli anni precedenti la sua partecipazione al premio Ozieri…iniziò a prendervi parte fin dal 1957 ed ebbe numerose progressive affermazioni…non impacciato nella rima, raggiunse subito risultati letterariamente notevoli e fu in grado di arricchire la lingua poetica sarda attingendo i procedimenti formali dai testi della lirica italiana, spagnola ed europea”.

Morì il 16 Agosto del 1966.

 

Presentazione del testo [poesia tratta da Sas poesias d’una bida, Edizione critica a cura di Nicola Tanda (trad. G. M. Poddighe) 2D Editrice Mediterranea, Sassari-Cagliari 1992 pagg.64-66].

 

Di questo poeta, rimasto sostanzialmente inedito durante la sua vita, la prima raccolta di liriche fu pubblicata nel 1992 col titolo Sas poesias d’una bida a cura di Nicola Tanda e ripubblicata in una nuova edizione critica, sempre a cura dello stesso Tanda (con la collaborazione di Raffaella Lai nel 2004 per la CUEC editrice) secondo cui  “sempre più spesso la lingua poetica di Predu Mura si avvale non solo dei procedimenti della lingua poetica contemporanea ma anche della carica simbolica di metafore bibliche o dantesche come di metafore ricavate dal mondo naturale. Soprattutto prevale, dal punto di vista dei significati, un fortissimo senso della giustizia e un fervido sentimento cristiano”.

Con Fippo operaiu ‘e luche soliana Pedru Mura nel 1963 vinse il prestigioso premio Ozieri, (che poi rivincerà nel 1960 con la poesia Sos chimbe orfaneddos e nel 1965 conPrena sa notte ‘e crarore): dello stesso Premio divenne poi membro onorario.

In questa poesia rivela una straordinaria originalità, indicando il modo di fare poesia in lingua sarda, come una via attraverso la quale imprimere una spinta modernizzatrice a una tradizione forse a rischio di crisi.

Pedru Mura nella sua poesia e segnatamente in Fippo operaiu, -che secondo Nicola Tanda può considerarsi il suo testamento poetico- esprime una forte carica espressiva, con uno stile essenziale e moderno: canta cantones friscas, lui un tempo operaiu ‘e luche soliana ed ora oscuru artisanu de versos currende un'odissea 'e rimas nobas.

E nutre la speranza –ricordiamo che sono gli anni della programmazione e del primo Piano di rinascita- che finalmente una nuova aurora possa nascere per la Sardegna, attraverso uno sviluppo e una prosperità che sappia coniugare e saldare tradizione e modernità, vecchio e nuovo, passato e presente: Gai fortzis su sole/in custa die de chelu/est bénniu a cojubare/frores de neulache/cun fruttos de meladidone.( Così forse il sole/in questo giorno di cielo,/è venuto a congiungere /i fiori dell'oleandro/con le bacche rossobrune del corbezzolo) .

 

 

Giudizio critico

Scrive Nicola Tanda a proposito dell’opera poetica di Pedru Mura, dopo aver ricordato l’edizione, da lui stesso curata, di Sas poesias de una bida che comprende le raccolteCantos ultimos, cantos quasi ultimos, cantos anticos e de su tempus pitzinnu: “Il sistema letterario sardo, elemento fondamentale del testo complessivo di questa cultura, si è aperto, grazie alla sua opera, alle esperienze più interessanti della lingua poetica contemporanea. Avendo alle spalle l’intero patrimonio della poesia e della cultura, Mura ha arricchito la lingua poetica sarda di nuovi significanti, immettendola nel grande filone classico-romanzo europeo, e di nuovi significati, rompendo definitivamente con la tradizione dell’odio e della vendetta.Ha aperto con le frontiere dell’ethos barbaricino allacultura della pace e del perdono, senza le quali è impossibile edificare  una società degna di rispetto. L’operazione letteraria compiuta con questi testi ha contribuito al rafforzamento dell’automodello della cultura sarda che ha ripreso energia dal basso e che funziona secondo nuovi orientamenti”.

[Nicola Tanda-Dino Manca, Introduzione alla letteratura, Ed. Centro di studi filologici/CUEC, Cagliari, 2005, pag.311-312].

 

FIPPO OPERAIU ‘E LUCHE SOLIANA

E commo Deus de chelu

A chie canto

Cust’urtima cantone cana?

A bentanas apertas

a su tempus nobu promissu

a Sardigna

barandilla de mares e de chelos?

Su bentu ghettat boches.

Commo m'ammento:

unu frore rùju

una melagranada aperta

una tempesta 'e luche

cussa lapia 'e ràmene luchente!

Fippo operàiu 'e luche soliana

commo so' oscuru artisanu de versos

currende un'odissea 'e rimas nobas

chi mi torret su sonu 'e sas lapias

ramenosas campanas

brundas timballas e concas

e sartàghines grecanas.

Cada corfu 'e marreddu

allughia unu sole

e su drinnire

de una musica 'e framas

m'ingravidabat su coro

e mi prenabat sos ocros

d'unu mare 'e isteddos.

Frailàrju 'e cantones friscas

camino a tempus de luche

pudande sos mezus frores

in custa paca die chi m’abarrat

prontu a intrare

in su nurache ‘e s’umbra.

Gai fortzis su sole

in custa die de chelu

est bénniu a cojubare

frores de neulache

cun fruttos de meladidone.

 

Traduzione

ERO OPERAIO DI LUCE SOLARE

E adesso, Dio del cielo

a chi intono

quest'ultimo canto canuto?

A finestre spalancate

al tempo nuovo promesso

alla Sardegna

balcone di mari e di cieli?

Il vento mi sussurra voci.

Ora ricordo:

un fiore rosso

una melagrana spaccata

una tempesta d i luce

quel paiolo di rame luccicante!

Ero operaio di luce di sole

ora sono un oscuro artigiano di versi

che corre un'odissea di rime nuove

che mi rendano il suono

dei paioli ramati,

campane rilucenti stampi

conche e grecaniche impronte.

Ogni colpo di martello

mi accendeva un sole

e il tintinnio

di una musica di fiamme

mi gonfiava il cuore

e mi riempiva gli occhi

d’un mare di stelle

Fabbro di fresche canzoni

cammino a tempo di luce

cogliendo i fiori migliori

in questo po' di giorno che mi avanza

pronto a varcare

il nuraghe dell'ombra.

Così forse il sole

in questo giorno di cielo,

è venuto a congiungere

i fiori dell'oleandro

con le bacche rossobrune del corbezzolo,

 

 

ANALIZZARE

Nella lirica Nicola Tanda ritrova “analogie ungarettiane,quasimodiane, lorchiane” che però “vengono calate in un universo antropologico diverso, “il muro d’ombra” diviene“su nurache ‘e s’umbra”, “balaustrata di cielo”, “barandillas de mares de chelos”, “l’operaio di sogni” di Quasimodo ”operaiu ‘e luche soliana”; sinestesie ardite come“musica ‘e framas”, “frailàrju ‘e cantones friscas”, analogie come “una tempesta ‘e luche”, “unu mare de isteddos” sono associate a calchi danteschi, del dolce stil nuovo(un’odissea ‘e rimas nobas), e indicano una ricerca di nuovi percorsi, di aperture e saldature fra circuiti vecchi e nuovi che non comportano perdita di identità, come nell’orientamente solito dei poeti sardi in lingua italiana, anzi la rafforzano e ne fanno un vessillo.

In tal modo il poeta di Isili, riplasma l’immaginario sardo con una scansione lirica che si risolve in valori fonosimbolici del tutto nuovi e sorprendenti, grazie anche all’uso raffinatissimo che fa di alcune esperienze che gli provengono sia dalla poesia ermetica italiana che da certe civiltà sub regionali (Garcia Lorca e Nazim Hikmetz). 

“Tanto che –cito ancora una volta Tanda-  “Fippo operaiu ‘e luche soliana, una poesia scritta da un ramaio che si dilettava a comporre versi fino dall’età di tredici anni e che, quindi, sapeva unire l’artigianato del rame con l’artigianato della poesia, rappresenta certamente il vertice dell’esperienza poetica di Pietro Mura e probabilmente di quella sarda contemporanea”.

 

 

FLASH DI STORIA À

 

 -Il nuovo bilinguismo letterario

“[…]Ed ecco la lirica in lingua sarda immediatamente alla scuola della contemporaneapoesia, italiana e straniera, più viva e consapevole. Pietro Mura, e con lui, come abbiamo detto, Benvenuto Lobina, e successivamente Antoninu Mura Ena hanno iniziato un'operazione letteraria nuova. Hanno messo in moto la funzione poetica della vecchia lin­gua sarda e hanno usato sperimentalmente i procedimenti formali del linguaggio poetico contemporaneo, lo hanno adeguato, con mediazione ardita, alla straordinaria meravi­gliadi nuovi significanti e di nuovi significati. Hanno ripla­smato l'immaginario sardo con una scansione lirica tutta interna e hanno ricreato una lingua poetica scavata nelleprofondità del soggetto, risolvendola in valori fonosimboli­ci del tutto nuovi e insospettati. Non solo Mura, non solo Lobina, non solo Mura Ena, si sono assoggettatialla scuola del Novecento. Una folta schiera di poeti (“astronauti sem­bravano”) ha prodotto una poesia in grado di permeare tutti, di coinvolgere gli strati sociali alti e quelli più umili, poeti colti, dunque, e poeti che la tradizione orale, almeno inizialmente, avevaalimentato e nutrito. Un' operazione semantica, o meglio semiotica, che ha rimesso in discussione quel modello culturale che la società degli anni Sessanta proponeva e che anche i 'Novissimi' contestavano, quello della monocultura industriale e dell'o­mologazione. Si è prodotta allora una rottura a livello di significato e uno scarto a livello di significanti. La mono­cultura industriale che massifica e mette in forse l'esistenza delle lingue, le lingue tagliate, ha provocato un sussulto di appartenenza, una tensione e un riscatto a livello antropo­logico. Il tema-problema della identità linguistica assume, inquesto contesto, un rilievo che non aveva mai avuto in precedenza, neanche nei momenti più accesi della lotta autonomistica. Il Premio Ozieri ne diviene il vero catalizza­tore e ne assume, in quegli anni di indifferenza e di ‘benessere’, la guida. Quel modello dell'industria a senso unico, totalmente dipendente dall'esterno, estraneo allavocazione antropologica del territorio, viene contestato dai poeti e con esso il progetto economico del Piano di Rinascita e insieme, viene rigettato il modello della fierezza barbaricina e il codicedella vendetta, arcaici e inutilizzabili in un futuro civile e democratico.

Da allora la scelta della lingua sarda nelle sue varietà, vienecondivisa da un numero sempre crescente di scrittori dipoeti che vogliono appropriarsi dei procedimenti formalidella lingua poetica e delle culture contemporanee e si assisteall'avanzata di una produzione letteraria nuova. Il rinnovamento metrico diventa elemento di rottura e pro­duce l'abbandono degli schemi della poesia della tradizione e una nuova libertà espressiva. Si contaminano procedi­menti formali del passato e del presente con risultati di sincretismo che esaltano al massimo la capacità del vecchio volgare romanzo che, sopravvissuto nel volgere dei secoli, diviene uno strumento di comunicazione straordinaria­mente moderno, in grado di farcircolare messaggi aggiornati, esperienze nuove e di permeare le coscienze e fondare finalmente, nel confronto, un automodelloculturale. La scelta della lingua diviene segno di rinnovamento di codici linguistici ed espressivi. Si inaugura una nuova stagione poetica e dunque una 'vita nuova' in linguasarda. I percor­si appaiono ben distinti e differenziati: le due coordinate principali della comunicazione sono ormai l'italiano e/o il sardo, un vero e proprio bilinguismo letterario.Le altre vie appaiono piuttosto sentieri, crocevia, non direttrici di mar­cia. La Sardegna, finalmente, da 'non luogo' diventa 'luogo', non di un esclusivo recupero memoriale, ma luogo dell'im­maginario che produce il progetto di un'identità dinamica, dal quale derival'energia vitale e morale di un nuovo modello di sviluppo economico e civile […]”.

[Nicola Tanda, Introduzione a Pedru Mura, Sas poesias Sas poesias d’una bida, nuova edizione critica a cura di Nicola tanda con la collaborazione di Raffaella Lai, CUEC Editrice, Cagliari 2004,pagg.XII-XIII-XIV].

 

Lettura. [questa poesia è tratta da Pedru Mura, Sas poesias Sas poesias d’una bida,nuova edizione critica a cura di Nicola Tanda con la collaborazione di Raffaella Lai, CUEC Editrice, Cagliari 2004, pagg.6-7].

 

 

L'HANA MORTU CANTANDE

L’hana mortucantande

 chin sa cantone in bucca.

E mi l'han accattau

in s'àndala predosa ocros a chelu

chin su fror' 'e sa morte

ispat’  in fronte.

Fit solu chin su frittu

e chin sa malasorte;

chin su bentu mosséndeli sos pilos

e in artu sa luna, pompiande.

Non l'hat cubau nemmancu su dolu.

Sosmortores fughios,

che umbra mala,

los hat bidos su ribu.

E sos seros de luna

cando dormin sas predas

si sedet a contare in segretesa

a isteddos e nues

comente l'hana mortu,

Est ruttu chen'ischire d'haer viviu;

chen'ischire de morrere:

l'hana mortu cantande

chin sa cantone in bucca.

 

Traduzione

CANTAVA E L’HANNO UCCISO

Cantava e l’hanno ucciso

col canto sulle labbra.

E me l’hanno trovato

nel sentiero di pietra occhi al cielo

con il fiore della morte

in fronte spalancato.

E’ rimasto solo col freddo

con la malasorte;

col vento che gli morde i capelli

e in alto, testimone, la luna

quando le pietre dormono

si siede a raccontare in gran segreto

a stelle e nuvole

come l’hanno ucciso.

E’ caduto senza sapere

d’aver vissuto;

senza sapere di morire;

cantava e l’hanno ucciso

col canto sulle labbra.

 

 

COMPRENDERE E VALUTARE

Altre attività didattiche per lo studente

 

Approfondimenti

-Nella sua poesia Pedru Mura “rompe definitivamente –come afferma Nicola Tanda- con la tradizione dell’odio e della vendetta” e con “Gli antichi sardi pelliti e mastrucati, <belli feroci e prodi> come li definiva Satta”. Approfondisci questa nuova visione presente nel poeta di Isili.

 

Confronti

-Confronta la poesia di Pedru Mura con alcune liriche di Quasimodo o di Garcia Lorca, mettendo in rilievo analogie e diversità.

 

Ricerche (anche a mezzo Internet)

-Servendoti anche di Internet registra le poesie in cui è maggiormente presente il messaggio cristiano del perdono e della pace.

 

Spunti vari

-La speranza di una “nuova aurora” nella poesia di Mura.

-la modernità della sua lingua poetica

 

 

Bibliografia essenziale

Opere dell’Autore

-Sas poesias d’una bida, Edizione critica a cura di Nicola Tanda (trad. G. M. Poddighe) 2D Editrice Mediterranea, Sassari-Cagliari 1992.

 

Opere sull’Autore

-Nicola Tanda, Introduzione a Sas poesias d’una bida, Edizione critica a cura di Nicola Tanda (trad. G. M. Poddighe) 2D Editrice Mediterranea, Sassari-Cagliari 1992.

-Nicola Tanda-Dino Manca, Introduzione alla letteratura, Ed. Centro di studi filologici/CUEC, Cagliari, 2005.

-Salvatore Tola, La Letteratura in lingua sarda,Testi, autori, vicende, CUEC editrice, Cagliari 2006.

 

*Tratto da Letteratura e civiltà della Sardegna, volume I, di Francesco Casula, Grafica del Parteolla Editore, Dolianova, 2011, pagg.254-261

Dante, la Sardegna e la lingua sarda

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di Francesco Casula

Non sappiamo con esattezza se Dante sia stato in Sardegna di persona: non abbiamo comunque documenti che lo accertino. Nella Divina Commedia però i riferimenti alla Sardegna e ai Sardi, ai suoi costumi e ai principali personaggi che quivi avevano interessi e possedimenti o che comunque vi svolsero la loro opera, sono tanto frequenti da indurre Tommaso Casini (in Ricordi danteschi in Sardegna, in Nuova Antologia, terza serie, vol. LVIII, fasc. XIII e XIV) a prospettare l’ipotesi che l’Alighieri vi sia stato e che l’Isoletta di Tavolara, all’uscita del canale di Olbia, con la sua struttura conica dalle bianche falde calcaree emergenti dal mare abbia dato lo spunto alla forma del Purgatorio quale la foggiò l’ardita fantasia del poeta. Ecco cosa scrive: ”La storia, la geografia, la lingua, i costumi, gli uomini, i fatti della Sardegna nel tempo di Dante sono rispecchiati nelle opere di lui con tanta precisione e abbondanza di informazioni che, al confronto col silenzio di tutti i suoi contemporanei, inducono un senso di meraviglia sì che non dovrebbe poi parere troppo ardita l’ipotesi che il Poeta, o da giovane, quando a ciò poteva essergli occasione l’amicizia sua con il giudice Nino gentile o nella più matura età quando fuoruscito dalla patria godette la ospitale cortesia dei Malaspina, i quali appunto ebbero in quegli anni frequenti occasioni di recarsi nell’isola, facesse anch’egli come tanti altri al suo tempo, il viaggio in Sardegna. L’ipotesi sarebbe tutt’altro che campata in aria…”.

Anche perché – aggiunge Casini – ai tempi di Dante il viaggio dall’Italia alla Sardegna era “Né lungo né difficile. Le galee di Pisa arrivavano per l’Elba alle coste della Gallura in due giorni”.

E Pantaleo Ledda, più o meno sulla stessa linea (in Dante e la Sardegna, 1921, riedito dalla Gia editore, Cagliari, 1994) scrive che “se non si trattasse di un volo di fantasia, si potrebbe dire, per avvalorare l’ipotesi di questo viaggio, che l’idea di creare il monte del Purgatorio, sorgente dalle acque di un mare solitario, venisse al poeta dopo le vive impressioni alla vista dell’Isola di Tavolara, che sale a picco dal mar Tirreno, coronata sulle cime di una fosca boscaglia”.

“Certo è che quell’Isola scriveva sempre Casini – come ricorda Manlio Brigaglia in Dionigi Scano, Ricordi di Sardegna nella Divima Commedia con scritti di Alberto Boscolo, Manlio Brigaglia, Geo Pistarino, Marco Tangheroni, Cagliari, Banco di Sardegna, Milano Silvana editoriale, 1982 – così integrata all’economia toscana, così attraversata da mercanti e marinai (furono loro che fecero alle donne di Barbagia la fama di licenziosità di cui furono secondo i commentatori, unanimemente circondate nel medioevo) così direttamente collegata alle lotte di potere fra le grandi famiglie pisane, così importante nella politica oltretirrenica di quei signori Malaspina di cui Dante fu ospite e lodatore, doveva essere conosciuta e universalmente «raccontata» nel mondo che Dante conobbe e frequentò”.

Sicuramente conosceva gli avvenimenti e i personaggi della Sardegna del secondo ‘200 e del primo ‘300 sia attraverso Nino Visconti, il Nino gentile suo amico, Giudice di Gallura, morto nel 1289, che spesso si recava a Firenze; sia attraverso i toscani che spesso si recavano in Sardegna; sia attraverso gli stessi Sardi che si recavano in Toscana.

Dante parla della Sardegna e dei Sardi nei canti XXII, XXVI, XXIX, XXXIII dell’Inferno e nel VII e XXII del Purgatorio. Fra le regioni storiche sarde vengono nominate la Barbagia, la Gallura e il Logudoro.

L’Isola dei Sardi è ricordata nel canto XXVI, versi 103-105 dell’Inferno, quando racconta il mitologico viaggio di Ulisse:

L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna

Fin nel Marocco e l’isola de’ Sardi

E l’altre che quel mar intorno bagna.

E nel canto XVIII, versi 79-81 del Purgatorio accennando al declino della luna a mezza notte tarda:

E correa contro ‘l ciel per quelle strade

Che ‘l sole infiamma allor che quel di Roma

Tra ‘ Sardi e’ Corsi il vede quando cade.

Il primo a occuparsi della Sardegna nella Divina Commedia è l’archeologo sardo  Filippo Vivanet, (in La Sardegna nella «Divina Commedia» e nei suoi commentatori, Sassari, Tip. Azuni, 1879). Secondo Vivanet, il poeta fiorentino parla dell’Isola solo per evocare spiriti di assassini e di barattieri: “Nei pochi punti ove noi entriamo direttamente non è già per intrattenere il lettore di uomini grandi e virtuosi, per dare vita a un’immagine giuliva e leggiadra ch’egli lo fa, ma sibbene per evocare spiriti tristi di assassini e di barattieri, per distendere sulla sua tavolozza tinte dolorose di delitto e pena”.

Certo si potrebbe sostenere che Dante nei suoi strali non risparmia nessuno: ); né Cesena dove (tra tirannia si vive e stato franco); né Siena (gente sì vana come la senese); né Lucca (dove ogni uomo è barattiere); né i Romagnoli che sono imbastarditi; né i Pisani (volpi sì piene di froda e  Ahi Pisa vituperio delle genti ); né gli Aretini (botoli ringhiosi ) né i Pistoiesi che conducono una vita bestiale; né i Genovesi, cui augura l’annientamento perché uomini diversi d'ogni costume e pien d'ogni magagna; né i Bolognesi dei quali (è questo luogo tanto pieno); nè il Casentino dove l'Arno scorre (tra brutti porci più degni di Balle, che d'altro cibo).

 Firenze, addirittura, che il poeta ardentemente predilesse, supera per gli ingiuriosi rim­brotti tutte le altre città italiane: è città ch'è piena d'invidia sì che ne trabocca il sasso…dove tanto più trova di can farsi lupi ecc. ecc.

 Fatto sta che dalle Cantiche del Paradiso la Sardegna e i Sardi sono puntualmente totalmente esclusi: “Nel ciel che più della sua luce prende” –secondo Vivanet – non vi era posto per una terra così infelice.

Dalla fosca luce dantesca in cui sono presentati i Sardi, non si salvano neppure  le donne: per il poeta fiorentino, quelle barbaricine avevano fama di dubbia moralità. Nel Canto XXIII del Purgatorio versi 94-96 fa dire infatti a Forese Donati:

Chè la Barbagia di Sardigna assai

nelle femmine sue è più pudica

che la Barbagia dov'io la lasciai.

Secondo le chiose del secondogenito di Dante, Pietro Alighieri, le donne sarde andavano addirittura discinte e sovente addirittura nude. Per lo storico Alberto Boscolo “era vero che le donne di Barbagia andavano con il seno scoperto, perché due secoli dopo i vescovi le obbligavano a coprirselo con un largo fazzoletto”. Secondo altri storici e commentatori si tratta di una vera e propria falsità. E’ una delle tante panzane – scrive Dionigi Scano in Ricordi di Sardegna nella«Divina Commedia» divulgate in terraferma sulla Sardegna, raccolta leggermente dal poeta.

Un altro studioso e commentatore della Commedia, Pantaleo Ledda, va oltre, sostenendo esattamente il contrario. La presunta immoralità non solo non avrebbe alcun fondamento, in quanto il pater familias esercitava un’autorità indiscussa su tutto il clan familiare, ma casomai, avveniva il contrario:

un’eccessiva copertura del corpo con abiti che arrivavano fino alle caviglie. Addirittura il viso, in certe circostanze appare nascosto dietro un fazzoletto scuro che avvolge il capo, le guance e il mento, specie se si tratta di donne maritate, vedove o anziane” (Dante e la Sardegna, opera citata).

“Non puó dirsi neppure che Dante sia stato preciso – scrive ancora Dionigi Scano nell’opera già citata – quando nel De vulgari eloquentia, ragionando dei vari dialetti d'Italia, scrisse che Sardos etiam qui non Latii sunt, sed Latiis adsociandi videntur, ejiciamus, quoniam sine proprio vulgari esse videntur, grammaticam tamquam simniae homines imitantes”.

Insomma a Dante (il passo è contenuto nel capitolo .9 del Libro 1 del De Vulgari Eloquentia) ” Anche i Sardi, che non sono Latini, ma che sembra si possano ai Latini associare, cacciamo (dal novero degli eredi di diritto dei Latini) perché sembrano proprio gli unici a non disporre di un proprio volgare imitando la grammatica latina come le scimmie imitano gli uomini! (sic)!”.

Non comprendendo – precisa ancora Scano – che nessun altro idioma d’Italia conserverà, come il sardo, la nobiltà antica della Lingua latina.

Coglierà invece nel segno un suo quasi contemporaneo, Fazio degli Uberti quando nel Dittamondo, scriverà sui Sardi:

Io vidi che mi parve meraviglia

 una gente che alcuno non intende

nè sanno quel che altri bisbiglia.

“Versi confermanti – è sempre lo Scano a sostenerlo – la lenta evoluzione della lingua sarda, che mantenendo antiche forme e strutture proprie del latino, si rese inintellegibile a quanti erano adusati al dolce idioma italiano”.

Indubbiamente l’Alighieri non fu molto benevolo verso la ­Sardegna anche quando mette in evidenza il lato negativo della (presunta o vera) insalubrità dell’aria a causa delle zone paludose. L’accenno è contenuto nel canto XXIX, versi 46-51 dell'Inferno:

Qual dolor fora, se de gli spedali

di Valdichiana tra il luglio e il settembre

 e di Maremma e di Sardigna i mali

fussero in una fossa tutti insembre

Si tratta di un tema oltremodo abusato negli scrittori classici, tanto da farci pensare che Dante – che i classici ben conosceva – ne sia stato largamente influenzato. Ne hanno parlato Marziale e Tacito, Claudiano e Pausania, Pomponio Mela e Strabone, Orazio e Cicerone.

E’ invece di estremo interesse l’immagine che Dante dà della Sardegna quando di essa coglie i connotati di una popolazione in qualche modo unitaria e del tutto particolare. Si pensi a frate Gomita – in sardo Comita, perché scritto con la “G” è una forma toscana – e a Michele Zanche, mai stanchi pur nelle bolgie infernali di parlare della loro Isola:

………………..a dir di Sardigna

le lingue lor non si sentono stanche

Dante non poteva mettere in evidenza con termini più propri e incisivi una caratteristica dei Sardi, certamente colta fra i familiari isolani delle famiglie Visconti e Malaspina: ovvero che i Sardi per loro natura sono poco loquaci, ma, quando alcuni di essi si incontrano fuori dell'Isola, la loro nostalgia è tale che s'intrattengono, anche senza conoscersi, sulle cose della loro terra, argomento inesauribile, per il quale il loro parlare diventa sciolto e le lingue lor non si sentono stanche. (Vedi Letture).

Frate Gomita di Gallura e Michele Zanche, donno del Logudoro, sono i primi personaggi sardi con cui Dante s’imbatte nell’Inferno. Il Frate sarebbe stato un alto funzionario – luogotenente, vicario,cancelliere? – del giudice Nino di Gallura. Ma non abbiamo documenti che identifichino il personaggio e tanto meno che accertino quando e dove esercitasse il suo “ufficio” di barattiere. Probabilmente Dante venne a conoscerlo proprio attraverso il suo amico Nino Visconti, sovrano spodestato del regno di Gallura.

Michele Zanche invece – come ricorda nel suo Dizionario storico sardo il medievista Francesco Cesare Casula – “è un’importante personaggio sassarese della fine del Duecento…non sono note le origini della sua famiglia, certamente magnatizia e forse discendente dai sovrani del regno di Torres, come attesta il titolo di «donno» che troviamo in Dante stesso e in un documento genovese che ci parla di lui (il cognome Zanche ha la stessa origine etimologica di «Tanca» soprannome di Andrea re di Torres nell’XI secolo)”.

Secondo i commentatori danteschi, fu assassinato dal genero Branca Doria con la complicità di un suo parente.

Sempre nell’Inferno il secondo accenno dantesco alla Sardegna è nel canto XXVI, il terzo nel XXIX: ad ambedue abbiamo già fatto riferimento. Il quarto e ultimo accenno nell’Inferno lo abbiamo nel canto XXXIII  (Vedi Letture).

Dopo aver assistito alla scena del Conte Ugolino e dopo aver da lui udito il dramma pietoso e triste a Dante si fa innanzi frate Alberigo da Faenza il quale gli addita ser Branca Doria, nobile genovese e genero di Michele Zanche, che abbiamo già visto tra i barattieri. Branca Doria – secondo Dante –  invitò a cena il suocero e il suo seguito e li fece uccidere.

Gli altri due accenni danteschi alla Sardegna li troviamo nel Purgatorio: il primo nel canto VIII, versi 52-81, in cui il poeta descrive l’incontro con  Ugolino (Nino- Nin gentil, lo chiama) Visconti, di Pisa, Giudice di Gallura e figlio di Giovanni Visconti, capo dei Guelfi di Pisa, la cui figlia Giovanna, rimasta orfana del padre sarebbe stata spogliata dai Ghibellini di tutti i suoi beni, se il papa Bonifacio VIII non fosse intervenuto in difesa di lei, quale figlia di un grande esponente del partito guelfo sostenitore del papato.

La moglie, Beatrice d’Este, rimasta vedova, passò a seconde nozze con Galeazzo Visconti, signore di Milano: Nino, mortificato dalla infedeltà della moglie, sia coniugale sia politica, dà di lei un giudizio molto severo. Afferma inoltre che l’insegna del secondo marito, Galeazzo Visconti di Milano (una vipera) sulla tomba di Beatrice, non avrebbe dato alla sua memoria tanto prestigio e onore quanto l’avrebbe data l’insegna dei Visconti di Gallura (il gallo). Il secondo accenno è nel canto XXIII, versi  94-96: il poeta appena giunto presso un albero carico di squisitissime frutte, bagnati da chiare e fresche acque, s’incontra con il suo amico e parente Forese Donati di Firenze, il quale parla di sua moglie Nella e della licenziosità delle donne fiorentine e della Barbagia di Sardegna. Che abbiamo già avuto modo di commentare.

Letture: 1. Inferno Canto XXII versi 76-90

 76 Quand'elli un poco rappaciati fuoro,

     a lui, ch'ancor mirava sua ferita,

     domandò '1 duca mio sanza dimoro:

 

79 "Chi fu colui da cui mala partita

    di' che facesti per venire a proda?".

    Ed ei rispuose: "Fu frate Gomita.

 

82 quel di Gallura. vasel d'ogne froda,

     ch'ebbe i nemici di suo donno in mano,

     e fé sì lor, che ciascun se ne loda.

 

 

 

 85 Danar si tolse. e lasciolli di piano,.

 sì com'ei dice; e ne li altri offici anche

 barattier fu non picciol, ma sovrano.

 

 88 Usa con esso donno Michel Zanche

      di Logodoro; e a dir di Sardigna

      le lingue lor non si sentono stanche.

 

2. Inferno Canto XXXIII versi 133-147

I33  Ella ruina in sì fatta cisterna;

        e forse pare ancor lo corpo suso

       de l'ombra che di qua dietro mi verna.

 

136 Tu ‘l dei saper, se tu vien pur mo giuso

elli è ser Branca Doria, e son più anni

 poscia passati ch'el fu sì racchiuso”.

 

139 “Io credo”, diss’io lui, “che tu m’inganni;

        ché Branca Doria non morì unquanche,

        e mangia e bee e dorme e veste panni”.

 

142  “Nel fosso su” diss’el, de’ Malabranche,

 là dove bolle la tenace pece,

 non era ancor giunto Michel Zanche,

 

  145  che quelli lasciò il diavolo in sua vece

          nel corpo suo, ed un suo prossimano

          che 'l tradimento insieme con lui fece.

 

(Tratto da I viaggiatori italiani e stranieri in Sardegna di Francesco Casula, Alfa Editrice, di prossima pubblicazione),

 

ÒMINES E FÈMINAS DE GABBALE

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Òmines e Fèminas de Gabbale
Recensione di Franca Marcialis

Essi de Gabbale o de Cabali, comenti naraus nosu in Campidanu, bolit nai essi dinnius de nodu e de arrespetu. Nosu naraus “est un’òmini de cabali, o est unu de pagu cabali, o non ddu at cabali, non at scaburtu cabali perunu… Essi òmini de cabali bolit nai essi onestu, de caratteri forti, abili, sabiu, dinniu de essi apreziau.

In pagus fueddus, òmini de cabali est unu comenti de s’amigu nostu Franciscu Casula chi at scritu is librus asuba de “òminis e fèminas de gabbale“ imprentaus de Maria Marongiu in sa domu de imprenta Alfa Editrice de Quartu.

Franciscu est un’òmini seriu e in su matessi tempus sempri aligru, de principius sanus, sabiu, frimu in is ideas, de grandu cultura, studiosu de storia e de cultura sarda, scritori e giornalista, sindacalista, professori de scola e maistu de vida sempri prontu a gherrai po difendi is prus debilis e sempri in cumbata po mantenni fidi a is ideas suas. Custas ideas si podint stringi in custus pagus fueddus postus in sa presentada de su libru asuba de Deledda: “Nois cherimus sighire a bivere, cun s’identidade nostra, istorica, culturale e linguistica de populu e de natzione: pro custu toccat chi sa limba sarda siat imparada e connota e duncas foeddada e iscritta”.

Franciscu est unu chi ponit sempri in pratica su chi predicat e propriu po custu issu at iscritu medas librus asuba sa storia, sa lingua e sa cultura sarda e puru custus librus chi presentaus innoi funt stetius aprontaus in s’idea de fai conosci fèminas e òminis de cabali de Sardinnia.

Funt iscritus in sardu, in sa fueddada de Cab’e Susu, ma si cumprendint beni poita si sforzant de arribai a una scritura comuna chi pozat essi cumprendia e umperada de totus. Chini ligit su libru si-nd’abizat iluegu ca est iscritu de un’òmini de scola chi donat atenzioni a su chi si narat e a comenti si scrit. Sa lingua est moderna, arrica comenti de lessicu, struturada sighendu sa sintassi sarda, cun frasis beni tessias e chi si cumprendint in deretura. Is argumentus podint essi ampriaus e permitint de aprontai unidadis de imparu chi accolegant medas materias chi si faint in iscola (istoria, giografia, literadura sarda, nazionali e internazionali, critica literaria).

Is librus si podint umperai beni po sa didatica de su sardu in sa scola: funt iscritus po is giovunus de oi in manera chi issus, conoscendu genti de cabali, pozant conosci sa storia sarda, su chi nosu seus stetius, pozant conosci is arrexinis de sa cultura nosta e dda pozant apreziai de prus.

Franciscu Casula at bofiu apreziat de tres fèminas sardas dinnias de essi connotas e amiradas.

Sa prima est Lionora de Arborea. Lionora (Eleonora D'Arbarea) est una de is fèminas prus stimadas de sa storia italiana de is tempus passaus. Is contus asuba de sa vida sua funt medas, pagus perou is testimoniantzias istoricas. Franciscu si frimat a totu su chi si podit provai cun documentus fenzas de sterri arrescionis in is contisceddus chi benint mandaus de babu a fillu ma chi non si podint provai in manera peruna. Lionora est nascia in su 1340, filla de Marianu IV e coyada cun Brancaleone Doria in su 1376 (a 36 annus) no po amori ma po podi tenni una manu de agiudu contras a is Aragonesus. Apustis mortu (bocciu non si scit de chini) su fradi Ugoni divenit juighissa de Arbarea de su 1383 fintzas a su1404 annu chi s’est morta po mori de sa pesti niedda. Sa juighissa nosta fut contra sa potentzia spanniola chi boliat concuistai in donnia modo sa Sardinnia e iat fatu unas cantus gherras po s'autonomia de totu sa Sardinnia contra s'invasori aragonesu. Mancai non siat arrenescia in cust’idea, sa genti de sa Sardinnia s'arregodat de Issa po sa "Carta de Logu", una Carta de is Leis , iscrita in lingua sarda e umperada de su 1421 in totu sa Sardinnia. Custa podit essi cunsiderada una de is fromas prus avantzadas de sa scientzia de is leis in su tempu medievali. Franciscu Casula at postu in ispicu sa moderninadi de sa "Carta" e at fatu resaltai comenti n-ci fut atentzioni po su mundu de is fèminas, puru cun ordinamentus chi podint esser cunsideraus "modernus", (comenti sa libertadi de sa fèmina de acetai o arrefudai sa coya de aconciu). Po donnia mancanzia si tenit in contu sa cundanna giusta. Massayus e pastoris, tandus prus de oi, fuant in cumbata po s’usufrutu de is terras, agatànt in sa carta de logu regulamentus frimus e precisus chi depiant ascurtai amarolla poita sa lei de Lionora fuat pagu druci cun is prepotentis. Comenti de pena po is disatinus sa lei podiat cundannai a morri in su fogu o s'intzurpiamentu o a sa prisonia. Si donàt perou attenzioni po biri chi ci fiat voluntadi de fai su mali. In atrus logus tandus no ci pentzànt nimancu.

Is 198 articulus de sa Carta pertocant totus is aspetus de sa vida de su Stadu: castigamentus po mali mannu, ordinamentos po massayus e pastorìs, po chini poniat fogu, po sa cassa, po cussu chi spetàt a chini trabalàt e sa tutoria de is prus debilis. Po su tempu suu custa lei fiat moderna. Sa Carta de Logu de Lionora est abarrada in vigori in totu sa Sardinnia fintzas a su 1827 candu arribat sa Lei Codice Feliciano.

Franciscu si frimat a longu asuba de is articulus prus prezisus po si fai biri sa modernidadi de sa lei e sa bellesa de sa lingua umperada in sa Carta de Logu; po nai infinis ca propriu in sa Carta nosu podeus agatai unu modulu bonu de lingua chi podit essi umperada finzas e imoi in is ufitzius. Custu libru donat bonus ispuntus po studiai sa lingua sarda scrita, po conosci sa storia sarda candu sa Sardinnia teniat ancora ispera de libertadi. Lionora est arrenescia a cumpriri s’opera incumenzada de su babu Marianu i est istetia “su sovoranu prus mannu chi sa Sardinnia apat tentu”.

Su de dus librus est scritu asuba de Grazia Deledda sa scritrici sarda, unica fèmina in su mundu chi at bintu su premiu Nobel po sa literadura ; cun s’opera sua at onorau sa Sardinnia e nosu sardus.

Franciscu at iscritu custu libru in manera chi nemus si dda scaresciat e su nomini su pozat intrai in is iscolas poita fizas a imoi is librus de scola non dda tenint in carculu.

Grazia Deledda est nascia a Nugoro in su 1871 de Giovanni Antonio e Francesca Cambosu. In familia stetiant beni: su babu, teniat unu diproma de procuradori legali, commerciàt su craboni, fuat unu possidenti de terras.

A edadi de disciasett’annus Gratzia cumenzat a iscriri po sa rivista "Ultima moda" de Roma e de tandu, donnia santa dia parti de su tempus ddu passàt scriendu. Si coyat in su 1900, sighit su pobiddu a Roma e innia est morta in su 1936.

Bandat a iscola finzas a sa cuarta elementari, agoa studiat po contu suu is librus de sa literadura italiana e internazionali e ampriat is conoscentzias gratzias a is contus de is anzianus e a is contus de is cuilis.

Deledda conoscit beni sa cultura popolari, dda cumprendit e in custus ambientis fait movi e bivi is protagonistas de is romanzus suus. In donnia libru non mancat de fueddai de sa Sardinnia, de is fèminas e de sa natura. Franciscu Casula scrit: S’atividade letteraia de Gratzia Deledda andat dae su 1880 a su 1936 e, cun su romanzu autobiograficu de Cosima, publicadu a pustis morta, finas a su 1937. Abratzat 350 novellas in degheoto volumenes, trinta contos, oto faulas, chibanta articolo, una chibantina de poesias e trentachimbe romanzos. At tentu, in prus de su Premiu Nobel, riconoscimentos mannos da parte de medas Istados e pessonazos importantes. In su 1935 sa cara sua est istada istampada in unu francubullu cherfidu dae su guvernu Turcu in una serie filatelica dedicada a sas feminas famadas de totu su mundu. Sa boghe sua est istada sa prima rezistrada in Italia in sa Fonoteca de s’Istadu. Sas operas suas imprentadas a pustis sa morte dae s’editore Mondadori de Milanu, sunt istadas traduidas in sas prus importantes limbas de totu su mundu, finas in tzinesu, indianu e zapponesu, in serbu croatu e peri in africanu. Totu s’opera de Deledda est istada traduida e publicada in russu.”

Sa protagonista de s’arti de Deledda est sempri sa Sardinnia: su populu sardu, s’amori, is prexus, is trumentus e is sentidus de sa genti.

In mesu a sa genti si scerant is fèminas: fèminas de cabali, fèminas balentis, decidias, capassis de calisisiat sacrifiziu, fèminas innamoradas, trumentadas, pecadoras e fortis in is ideas insoru. Is fèminas de is romanzus funt is feminas de sa soziedadi matriarcali sarda.

Is òminis invecis funt sempri debilis e indecidius.

Atra protagonista est sa natura, is animalis de sartu, is padentis is montis, is matas, is fruminis e is arrius.

Grazia Deledda est una fèmina famada , de importanzia e de ispantu. Su libru de Franciscu Casula acrarit su chi de Deledda penzant medas criticus literarius sardus italianus e strangius. Calancunu non dd’arreconoscint sa genialidadi ma is prus apreziant Deledda po sa fantasia ispantosa, po sa richesa de is sentitdus, po s’abilidadi in sa descrizioni de is logus acantu issa est nascia e pesada finzas a giovanedda.

Franciscu Casula si frimat a studiai su limbazu de Deledda po ndi bogai a pillu comenti issa fessat bilingue comenti bilinguis seus totus nosu sardus.

Berus est ca Deledda teniat unu lessicu italianu non meda arricu poita ca penzat in sardu e tradusiat in italianu. S’agatant medas bortas frasis tradusias de su sardu comenti “Cumprendiu dd’as” Capito hai? Funt presentis medas fueddus sardus o frasis italianas istrupiadas in sardu.

Deledda si ndi ponit meri de medas contus de sa tradizioni orali de is biddas. In s’arregorta de novellas popolaris scrit finzas e unu contu de maya chi at arregortu in Nurri intitulau “Is tres fradis” e chi deu puru apu intendiu contai a is becius de bidda candu fui pitica.

Franciscu Casula narat ca Deledda iat cumprendiu s’importanzia de sa cultura popolari (contus, dicius, pregadorias, poesias) poita in sa cultura popolari ddui funt is arrexinis de s’identidadi e de sa sabidoria de unu populu.

Ligendu su libru asuba de Deledda is scientis de scola apreziant custa femina ispantosa e in su matessi tempus si-ndi ponint meri de sa lingua e de sa cultura de su populu sardu chi est totu presenti in is romanzus

Su de tres libru, Franciscu dd’at iscritu po Marianna Bussalai; intremesu is personas nodias de Sardinnia est sa prus pagu connota, tocat a nai perou ca sa vida e is fainas cumprias in sa vida sua funt dinnias de essi apreziadas de totus e su pepari de is giovanus e de is fèminas chi dda podint pigai a modellu.

Franciscu in custu libri ddui ponit totu sa passioni chi su personagiu minescit: in pagu prus de 50 paginas arrenescit a fueddai de sa vida, de sa familia,de su sangunau e de sa domu, de Orani, sa bidda sua, de Marianna Bussalai comenti de scritora e poetessa e de is cuntatus chi teniat cun su poeta Antiogu Casula, s’amighenzia cun Bustianu Satta, cun Mariangela Maccioni, cun Lussu e cun Gonariu Usala.

Ligendu sa vida e is operas de Bussalai, si scerat sa simpatia de Franciscu Casula e si podit cumprendi cali funt is ideas suas asuba de sa politica, de sa sociedadi, de sa cultura e de s’educazioni de is giovunus.

Marianna est nascia in Orani in su 1904, bivit una vida pagu affortunada. Malaida de piciochedda pitica si portat po totu vida is doloris de una malaidia (sa tubercolosi ossea) chi dda trumentat dì e noti. Su corpus est minau de sa malaidia ma issa est forti de menti e de caratiri, giovana, meda abili, libera, feminista, antifascista e sardista, amanti de sa literadura e de sa poesia. Est bregungiosa ma non ddi timit a pigai cuntatu cun is inteletualis prus mannus de Sardinnia e de foras.

Est grand’ amiga de Graziella Giacobbe e de Mariangela Maccioni : impari funt is tre pilastrus de s’ antifascismo sardu. Est sempri bivia a Orani assola cun sa sorri Inniazia; in domu sua pinnigat is antifascistas e ddu su istradat a s’ida de una sociedadi libera e fenza de ditadoris . At curtu medas bortas su perigulu de su presoni e de su cunfinu.

Fuat andada a iscola finzas a s’edadi de 10 annus ma aprofundiat sa cultura po contu su apasciendu sa crosidadi cun milli e milli leturas. Si impenniat in sa vida politica e conoscit e cumprendit is dannus de su fascismu e po cussu cumbatit comenti de antifascista. Est intremesu de is chi fundant in Orani su Partidu Sardu e ndi difendit is principius po totu vida abarrendi frima in is proprias ideas finzas a sa morti. Sa militanzia comenti de antifascista e de sardista dda fait connosci comenti “signorina Mariannedda de sos Battor Moros”

Issa scriiat “Il mio sardismo data da prima che il Partito Sardo sorgesse, cioè da quando sui banchi delle scuole elementari, mi chiedevo umiliata perché nella storia d’Italia non si parlasse mai della Sardegna: giunsi alla conclusione che la Sardegna non era Italia e doveva avere una storia a parte”

Tenit grandu stima po Emiliu Lussu e cun issu teniat corrispondenzia finzas e candu, apusti de s’essi fuiu de Lipari acantu fuat confinau, teniat cuntatu cun issu po mesu de is litras chi Giovanna Bertocchi arriciat e spediat de Francia.

Po cantu essat tentu stima e adorazioni po Lussu, candu Lussu si fuat aggregau cun partidus italianistas (Partito d’Azione), cunzillau de sa pobidda Joyce Lussu, Marianna, mancai a coru afrigiu, si ddi fuat oposta.

Marianna fuat catolica cunvinta però criticat sa Cresia ca non fuat sempri giusta e bona cun totus. Si podit considerai sa maista de is Oranesus poita cun totus est sempri stetia disponibili a donai unu fueddu de cunfortu e a ddus imparai a ligi e a i scriri o a ddis iscriri diretamenti is litras in is momentus de bisongiu. Fuat una bona cunsilera poita arrenesciat a cumprendi is necessidadis de sa genti e nemus teniat segretus po issa.

Sardista cunvinta iat issa e totu ricamau sa bandera de is cuatru morus e dd’iat tenta cuada candu is fascistas de tanti in tanti fiant percuisizionis. Marianna at sempri cubatiu po s’autonomia e po s’indipendenzia de sa Sardinnia, criticàt s’atacamentu morbosu de certa genti a is cosas materialis, penzàt chi tocat a fai sa volontadi de Deus e cicai sempri su prexiu de sa genti. Is benis materialis funt sceti unu mezu e non una finalidadi de sa vida.

Marianna Bussalai est stetia deaderus una maista de vida poita at trasmitiu a is atras fèminas :
  • s’orgoliu de essi fèmina e de essi fèminas sardas
 
  • sa forza de podi afrontai is tribulias e is trumentaus de sa vida,
 
  • su coragiu de podi suportai is malaidias,
 
  • s’ingeniu de podi tenni cuntatus cun su mundu abarrendu sempri in d’una bidda
 
  • sa capacidadi de non si depi mai incrubai a sa cultura dominanti
 
  • sa lucididadi de sciri cumprendi su chi acuntessit in su mundu
 
  • sa forza de sciri abarrai frimus in su chi si creit mancai custu non cumbengat
 
  • sa passioni po sa cultura,


Is librus scritus de Franciscu Casula e imprentaus de Alfa Editrice ddus apreziaus poita si podint imparai a essi:

 
  1. fèminas capassas de caminai in is bias de su mundu a conca pesada comenti ant fatu Lionora, Grazia e Marianna
  2. patriotas sardas chi tenint s’obrigu de cumbati po sa cultura, po s’identidadi, po s’autonomia e po sa libertadi.
  3. maistas de iscola chi arrenescint a donai una vida noa a sa scola sarda in manera chi is fillus de oi siant cras “òminis e fèminas de cabali”.
 
 

Franca Marcialis

 

 

 

  Franca Marcialis, di Nurri, docente, studiosa di lingua sarda, scrittrice (per la Casa editrice Della Torre di Cagliari ha pubblicato “Contus”), impegnata sul fronte del bilinguismo e soprattutto della didattica del sardo, commenta, analizza e recensisce i libri Lionora de Arborea, Grazia Deledda e Marianna Bussalai scritti da Francesco Casula e pubblicati dalla Alfa Editrice di Quartu, nella collana “Omines e feminas de gabbale”.
Formato: cm 21,5 x 29
Pagine: 48 - Brossura - colori
Prezzo: € 10,00 cadauno


1. Gratzia Deledda de Frantziscu Casula
2. Emiliu Lussu de Matteu Porru
3. Leonora d’Arborea de Frantziscu Casula
4. Antoni Gramsci de Frantziscu Casula / Matteu Porru
5. Antoni Simon Mossa de Frantziscu Casula
6. Franziscu Masala de Matteo Porru / Toninu Langiu
7. Zuanne M. Angioy de Frantziscu Casula / Giuanna Cottu
8. Amsicora de Frantziscu Casula / Matteu Porru
9. Marianna Bussalai de Frantziscu Casula / Giuanna Cottu
10. Giuanni B. Tuveri de Gianfranco Contu / Ivo Murgia
11. Sigismondo Arquer de Frantziscu Casula / Marco Sitzia
12. Giuseppe Dessì de Frantziscu Casula / Veronica Atzei
13. Montanaru de Frantziscu Casula / Joyce Mattu
14. Egidio Pilia de Marcello Tuveri / Ivo Murgia
15. Gratzia Dore de Frantziscu Casula

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